Parrocchia Di Collegara-San Damaso

22 settembre 2013

Vangelo E Commento Domenica 22 Settembre

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Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli:
«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

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XXIV domenica per annum

Fantasia e creatività

Viviamo in un mondo ingiusto, un mondo legato all’apparenza, un mondo dove coloro che proclamano e dicono di difendere i valori cristiani in realtà non hanno una morale. Non è una novità, anche Amos, il profeta da cui è tratta la prima lettura, che ha vissuto quasi ottocento anni prima di Gesù dice le stesse cose. Eppure questo mondo ingiusto è l’unico che abbiamo, l’unico in cui vivere il messaggio di Gesù, fatto di fraternità, di condivisione, di misericordia. Gesù, che annuncia “beati i poveri” e che nel vangelo di Luca è presentato con grande forza proprio in questo suo aspetto di predilezione per i poveri, parla diverse volte anche di ricchezza. L’evangelista ha riportato già in un altro contesto il tema della ricchezza, precisamente nel capitolo 12, con la storia dell’uomo che costruisce nuovi granai per poter conservare le sue enormi ricchezze e godersele da solo. Nel capitolo che stiamo leggendo ora si parla di questo amministratore e poi dell’uomo ricco e del povero Lazzaro. Nella mentalità biblica le ricchezze non sono un male, è il loro uso e l’atteggiamento che si assume nei loro confronti, che costituiscono un fatto moralmente rilevante e determinante. In realtà nel racconto di oggi non è l’aspetto morale quello che viene messo al centro: ciò che fa questo amministratore è chiaramente deprecabile. L’attenzione è attirata su ciò che lo ha mosso: l’intelligenza, la scaltrezza, la furbizia, l’abilità, la capacità e la determinazione, la definizione dell’obiettivo e l’impegno per attuarlo. Tutte queste cose sono valori apprezzabili, anche se sono stati usati male non perdono di valore e di significato. Ciò che la parabola loda è questa capacità di cogliere al volo una situazione, questa acutezza nell’affrontarla, la genialità nell’escogitare lì per lì, sui due piedi, un rimedio. Luca vorrebbe che i discepoli del Signore mettessero la stessa prontezza, la stessa lucidità, la stessa radicalità, la stessa fantasia, a servizio dei valori del Regno. La venuta di Cristo, il suo vangelo ha creato una situazione nuova, ha capovolto una mentalità e allora il discepolo deve avere occhi per cogliere questa novità, deve avere immaginazione e fantasia per inventare le strade nuove.

I destinatari delle parole di Gesù, sono prima di tutto i discepoli, che chiama “figli della luce” ma che definisce anche poco furbi, incapaci di strategie efficaci nella vita, e che gli fanno provare una tenerezza mista a tristezza. Ma in sottofondo ci sono anche i farisei, citati nel versetto 14 che non abbiamo letto: “I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si beffavano di lui.” la situazione è simile a quella in cui nasce la parabola letta domenica scorsa, quella delle cento pecore, le dieci monete e i due figli e anche questa parabola di oggi, come l’altra, lascia in sospeso la conclusione: come è andata finire? Non si dice, l’ultima scena è quella dell’amministratore che sta trattando con i debitori del suo padrone, per rivolgere a suo favore tale debito, ma non si va oltre. Sono gli ascoltatori che devono trarre la loro conclusione, proprio come domenica scorsa.

La ricchezza (mammona, cioè il patrimonio intero, ciò che dà sicurezza alla vita, viene dalla radice aman, che significa credere, porre fiducia) in qualche modo è sempre disonesta, sottratta all’uso comune. Gesù invita a riconvertirla in patrimonio comune (che non è un riciclare il denaro sporco, o giustificare qualsiasi mezzo per un fine buono), si tratta invece di fare una buona gestione delle cose materiali, della propria vita terrena, spese a favore degli altri: è questo che dà accesso alla vita eterna, che è la vita stessa di Dio. Il tempo presente, dunque, risulta essere decisivo per il nostro futuro di eternità. Dobbiamo servirci del denaro senza esserne asserviti, possiamo cercare un giusto benessere ma sempre se lo ricerchiamo per noi e per gli altri insieme, è questo che lo rende giusto. Il culto di Dio suppone la logica dell’amore, della condivisione, della fraternità. Il culto a Mammona suppone la logica del possesso, dell’accumulo, del profitto, della prevaricazione.

Anche noi sperimentiamo giorno per giorno che molti ‘uomini religiosi’, cioè coloro che vivono in apparenza la fede cristiana, sono scaltri, furbi, pieni di successo e, stranamente, di credibilità (anche se arriva il momento del crollo per tutti!). Non possiamo permettere che chi cerca di vivere da discepolo sia come quelli a cui si rivolge Gesù, incapaci di quella perspicacia che permette di inventare soluzioni nuove e audaci che rendono affascinante il messaggio di Gesù Cristo. Cfr papa Francesco

Il percorso mostrato dall’amministratore è molto interessante e importante: parte dall’ accettazione della realtà, poi passa per il riconoscimento dei propri limiti e, infine, arriva alla decisione e alla scelta preparandosi un futuro. È questa capacità e questa fantasia che viene richiesta al discepolo, è questa fantasia che rende vicino e credibile il vangelo.

Commento di don Domenico Malmusi

15 settembre 2013

Vangelo E Comento Domenica 15 Settembre

Guercino -Il Ritorno Del Figliol Prodigo

Guercino -Il Ritorno Del Figliol Prodigo

Dal Vangelo secondo Luca 15,1-32.
Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo.
I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro».
Allora egli disse loro questa parabola:
«Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?
Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento,
va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta.
Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.
O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova?
E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta.
Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze.
Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto.
Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci.
Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava.
Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te;
non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni.
Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio.
Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi.
Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,
perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze;
chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò.
Il servo gli rispose: E’ tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo.
Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo.
Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici.
Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso.
Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo;
ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

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XXIV domenica per annum

Crisi e libertà

Il capitolo 15 del vangelo secondo Luca contiene una parabola. Noi siamo abituati a leggere questi racconti di Gesù come se fossero tre storie diverse, ma il testo è molto chiaro: “Gesù disse loro questa parabola”, una sola dunque, fatta di quattro scene diverse. Le prime tre sono un crescendo drammatico: un pastore perde una pecora su cento, poi una donna una moneta su dieci e, infine, un padre che perde un figlio su due. Come un ritornello ogni scena si conclude con una grande festa. Raccontando questa storia Gesù intende mostrare l’agire di Dio, che è mosso unicamente dalla misericordia. Dio, conosciuto già da Israele come Padre, rivela qui un volto che è anche materno, il volto di chi si lascia smuovere dalle “viscere di misericordia”, espressione biblica che ha a che fare con le contrazioni dell’utero. I giusti però sono invidiosi di questa misericordia di Dio e si irritano: vorrebbero un altro tipo di padre, più severo, più giudice, meno padre. A questo Gesù risponde con la quarta scena, che ci disorienta perché ci obbliga a ripensare tutto ciò che riguarda la nostra relazione con Dio e con i fratelli, soprattutto se ricordiamo che l’amore a Dio e l’amore ai fratelli fanno parte dell’unico grande comandamento.

Dio, nell’esperienza di Israele, che è la visione biblica e quindi anche cristiana, è il liberatore, colui che ha liberato il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto. Ma questa idea di libertà è stata offuscata dalla tradizione religiosa tanto che ambedue i figli di questo padre – che è Dio, un padre umano non sarebbe mai né così remissivo né così misericordioso – non lo sentono come liberatore ma come minaccia alla loro libertà. Il primo scalpita, vuole ribellarsi, vuole vivere, cerca di fuggire da questo padre. Naturalmente con i suoi soldi, perché da solo farebbe troppa fatica a procurasene. La storia di questo figlio, iniziata con la pretesa “dammi” si conclude con l’esperienza che “nessuno gliene dava”. Il secondo invece è rassegnato, è schiavo, talmente asservito da non sentire più nemmeno il desiderio di riscattarsi, di essere libero. Per questo è rinchiuso nella gelosia e nel risentimento che gli fanno dire a suo padre: “Io ti servo da tanti anni e tu non mi hai dato mai un capretto…” eppure il testo dice che il padre ha diviso tutte le sostanze fra i due figli. Paradossalmente il figlio maggiore avrebbe potuto dire: “A me hai lasciato l’azienda e a mio fratello i soldi liquidi, ora questa casa è mia, tu puoi andartene a cercare un’altra!”

Il percorso tracciato dalla parabola è il percorso della crisi ed è un itinerario necessario nella vita di ciascuno: è la crisi che porta a diventare veramente uomini e donne maturi se si riesce ad attraversare ciò che si è e vivere con consapevolezza il proprio “stare a casa”. Ad un certo punto della vita si avverte la ribellione (non voglio più stare dove sono, spaccherei tutto, fuggirei…) oppure la depressione (sento il peso e la fatica di quello che faccio, niente mi dà soddisfazione…). Di fronte a questi sentimenti che si radicano nel cuore occorre trovare il coraggio di rifondare la propria esistenza rinnovando la propria appartenenza a quella casa e quella famiglia.

Qui entra in gioco la figura del Padre, la vera rivelazione di Dio che non smette di aspettare e cercare l’uomo. È molto interessante notare che nelle prime due scene della parabola il pastore e al donna si danno molto da fare per cercare la pecora e la moneta, mentre il Padre non va alla ricerca del figlio, ma semplicemente lo aspetta. La parabola fa emergere la forza dell’impotenza del padre, che appare arrendevole: non mette in guardia il figlio minore dai pericoli a cui può andare incontro, quando ritorna non lo rimprovera, non dice “te l’avevo detto”, non gli chiede di fare penitenze o espiazioni e nemmeno di “fare i conti” prima di essere eventualmente riammesso nella casa che ha abbandonato. E proprio questo amore incondizionato che permette al giovane per fare esperienza del perdono.

Il padre, che aveva atteso il figlio minore, ora esce incontro al figlio maggiore, non lo costringe ad entrare, non lo rimprovera, ma lo prega, restando nella dolcezza dell’amore: ed è proprio grazie a questo atteggiamento che il figlio può esprimere tutta la sua rabbia e il suo rancore. Il padre accoglie con benevolenza anche l’espressione del suo odio per il fratello e del suo risentimento verso di lui, senza scandalizzarsi ma ricordandogli semplicemente che lui stesso è un figlio e che colui che è tornato è “suo fratello”. Questo atteggiamento esprime la fiducia che egli concede al giovane, la possibilità concreta di rinascere come figlio e non più come servo. La stessa cosa che al minore viene comunicata con l’abbraccio accogliente. Solo questo amore incondizionato può fare della chiesa il luogo della riconciliazione, della fraternità, della trasmissione dell’amore e della condivisione della gioia. Solo quell’amore fa della chiesa il luogo del perdono e della festa.

Commento di don Domenico Malmusi

9 settembre 2013

Vangelo E Commento Domenica 8 Settembre

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Pieter Bruegel - La torre Di Babele, 1563

Pieter Bruegel – La torre Di Babele, 1563

Dal Vangelo secondo Luca 14,25-33.
Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse:
«Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento?
Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo:
Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila?
Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace.
Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.

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XXIII domenica per annum

Portare a compimento

A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; chi può conoscere il volere di Dio?” così ammonisce il libro della Sapienza ascoltato come prima lettura. Solo il dono della sapienza, l’istruzione data da Dio possono far comprendere le sue vie che spesso sono lontane dalle nostre, sono dure, radicali. E Gesù non lo nasconde, non illude le folle proponendo un facile cammino, anzi insiste: “chi non fa … non può essere mio discepolo!”. Chi non è disposto a ordinare i propri affetti, chi è troppo attaccato ai suoi beni, chi non è risoluto nel perdere tutta la propria vita non può essere un discepolo. È un linguaggio duro, un linguaggio che scoraggia più che incoraggiare. Gesù però non teme di scoraggiare, non ha paura di perdere dei seguaci, anzi proprio con i dodici, ad un certo punto, chiede se vogliono lasciarlo anche loro; la sua preoccupazione non è mai stata quella del numero, piuttosto quella della serietà, della capacità di decidersi e portare a compimento ciò che si è deciso.

Scegliere, decidere è un processo umano che siamo chiamati a compiere sempre, su piccole e grandi cose: da come ci vestiamo al mattino fino a come vogliamo spendere la nostra vita. Le due piccole parabole indicano un aspetto importante della decisione che è quello razionale. Costruire una torre, o una casa, richiede una grande capacità progettuale, richiede competenza, coscienza delle proprie forze sia economiche che di ingegnosità. Così come partire per un’avventura importante e pericolosa, come la guerra per un re, richiede capacità di analisi, conoscenza della propria realtà e di quella che si dovrà affrontare, il testo dice “affrontare con diecimila chi viene con ventimila”, ma il numero non è l’unico indice: se i diecimila sono meglio armati, più difesi, addestrati in modo migliore si può vincere anche in scarsità numerica, occorre veramente valutare tanti aspetti diversi. Ma questi aspetti così importanti, in realtà, vengono per secondi. L’aspetto prioritario, quello che può dare motivazione, che può far partire analisi e calcoli è un motivo affettivo. Per tre volte il testo sottolinea che non può essere discepolo di Gesù che non è capace di ordinare i suoi affetti prima di tutto in lui. I legami famigliari, il possesso di beni, l’attaccamento stesso alla “propria vita” sono sicuramente affetti importanti ma che devono essere subordinati all’amore per il Signore. Amare il Signore con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, non significa rinnegare gli altri affetti ma ordinarli alla luce di un amore prioritario. Gesù chiede a chi decide di seguirlo di porre nella profondità delle relazioni con le persone amate la relazione con lui, cioè mettere al centro del nostro cuore la relazione con lui: in fondo le esigenze della sequela non sono altro che le esigenze dell’amore.

E l’amore è fatto soprattutto di spazio interiore, uno spazio fatto all’altro soprattutto attraverso l’ascolto. Fare spazio richiede di rinunciare, di perdere qualcosa di sé: devo donate tempo sottraendolo ad altre cose, devo lasciare da parte le mie preoccupazioni per comprendere, cioè devo rinunciare a me stresso, è per questo che è così difficile amare. È molto più facile possedere, riempire il proprio vuoto di cose, impegni, persone. L’amore è sempre così, anche l’amore per il Signore, l’unica esigenza imprescindibile secondo il nostro testo: si parla dell’andare a lui, di essere suo discepolo, di andare dietro… tutti termini che indicano un legame forte, una appartenenza reciproca. Questa è quella che chiamiamo esperienza affettiva, sentire di non appartenere più a se stessi ma ad un altro, mettere l’altro al centro dei propri interessi, delle proprie scelte. L’amore, sappiamo bene, è un vero e proprio lavoro, una fatica. Proprio perché è tutto questo è anche esperienza di libertà, perché si ama solo decidendolo personalmente e liberamente.

La radicalità che Gesù chiede a chi ha deciso di seguirlo, è dunque soprattutto un cammino che educa all’amore e alla libertà. E amore e libertà non hanno fine. Anche per questo Gesù è così esigente, il discepolo è chiamato non solo a iniziare, ma anche a portare a compimento. L’amore non può fermarsi alla bellezza del sentimento ma deve diventare assunzione di responsabilità, così come la libertà deve diventare perseveranza: e questo richiede rinuncia, purificazione, spogliazione. L’amore, e quindi la sequela di Gesù, tocca l’uomo in tutte le sue dimensioni: il suo cuore, cioè desideri, emozioni, intelligenza, il suo corpo, cioè la concretezza delle sue azioni, il suo tempo cioè la durata della sua vita.

Decidere di seguire Gesù non può essere la scelta di una stagione, ma un cammino di perseveranza che porta a spendere tutta la propria vita.

Commento di Don Domenico Malmusi

3 settembre 2013

Vangelo E Commento Domenica 1 Settembre

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Autore Pieter Bruegel il Vecchio Data 	1568 circa Tecnica 	Olio su tavola Dimensioni 	114×164 cm Ubicazione 	Kunsthistorisches Museum, Vienna

Autore Pieter Bruegel il Vecchio
Data 1568 circa
Tecnica Olio su tavola
Dimensioni 114×164 cm
Ubicazione Kunsthistorisches Museum, Vienna

Dal Vangelo econdo Luca 14,1.7-14.
Un sabato era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare e la gente stava ad osservarlo.
Osservando poi come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro una parabola:
«Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto.
Invece quando sei invitato, và a metterti all’ultimo posto, perché venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali.
Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio.
Al contrario, quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi;
e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

 

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XXII domenica per annum

Come io ho amato

Nella seconda parte del suo vangelo Luca racconta la storia di Gesù collocandola nel contesto del suo viaggio definitivo verso Gerusalemme: molti degli incontri, delle parole e dei Gesti descritti nascono proprio da questa ansia di Gesù di arrivare al compimento della sua missione. Il capitolo 14 è una sorta di stacco, un pit stop per ripartire con maggior vigore. Quasi tutto il capitolo è ambientato in un banchetto a casa di un fariseo. Luca è l’unico che, sui farisei, non fa di ogni erba un fascio: non tutti sono nemici dichiarati di Gesù, ci sono diversi incontri e pranzi con loro narrati in questo vangelo. Pranzi amichevoli ma non per questo privi di tensione, perché comunque Gesù è diverso, estraneo alle rigidità che caratterizzano il fariseismo. Nel nostro brano (nei versetti 2-6, tagliati dal testo liturgico) Gesù guarisce, di sabato un uomo idropico, cioè con una enorme ritenzione di liquidi nel ventre. Questa spiega lo sguardo dei farisei, che è un guardare sospettoso, è come se lo spiassero, come per coglierlo in fallo. È uno sguardo che è già un giudizio, che parte dalle proprie convinzioni per poi applicarlo nel giudizio verso le persone. Completamente opposto è lo sguardo di Gesù che osserva con attenzione ciò che avviene intorno a lui, in questo caso al banchetto, e cerca di comprenderne il significato più profondo. È un osservatore attento della vita, di ciò che accade, perché lui non è risucchiato dagli eventi, mantiene un certo distacco, conserva uno sguardo lucido, sapiente. E ne ricava un insegnamento. “Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio” dice la prima lettura, ed è proprio ciò che fa Gesù: la sua attenzione alla vita gli consente di ricavare dalla vita stessa parabole, insegnamenti, sapienza. Gesù cioè fa parlare la vita! Ora osservando nel banchetto prima gli invitati, “notando come sceglievano i primi posti” e poi colui che invita dà alcune indicazioni importanti.

La prima è che ci mette in guardia dall’esibizionismo e dal protagonismo di chi cerca sempre il primo posto. Ma non è solo cercando il primo posto che si annulla il vangelo, anche il falso umile che si pone sempre in fondo con l’aspettativa, e a volte di pretesa, di essere chiamato avanti rende vane le parole di Gesù. Umiltà non significa sottovalutarsi o reprimere le proprie possibilità e desideri, ma saper essere fedeli al proprio posto, al compito che ci è affidato, ai fratelli che il Signore ci ha posto accanto. Questa è l’umiltà vera, una umiltà che porta con sé anche la capacità di restare nella tensione, nella fatica. Gesù pranza con i farisei accettando il fatto che ci siano tensioni, incomprensioni, che la relazione non sia sempre facile e questo gli permette di dare un insegnamento nuovo, di interpretare la vita. Rimanere in modo fermo nelle proprie preoccupazioni personali, nelle tensioni familiari e comunitarie è fondamentale perché la vita non ci soffochi ma ci permetta di andare avanti, di sognare, di lavorare per costruire la novità. Gesù dà un mandato chiaro ai suoi discepoli, vivere l’umiltà, occupare, e non solo verbalmente, ma nel modo concreto di vivere, l’ultimo posto. Questa la regola per gli invitati.

E poi la regola per chi invita. La regola che dà Gesù sembra assurda e difficile: “invita poveri, storpi, zoppi, ciechi e sarai beato perché non hanno da ricambiarti”. Ma se ci pensiamo bene un banchetto è un dono di vita: che senso ha invitare a pranzo solo chi è sazio, quelli che perennemente sono supernutriti, come si può parlare di dono, di offerta se ci si aspetta un ricambio, una sorta di pagamento? Nel capitolo 11 della prima lettera ai Corinzi, Paolo, parlando del banchetto eucaristico mette in guardia proprio da queste usanze discriminanti che ci sono nella nostra vita: nutrire chi è sazio, rendere una compravendita la gratuità. Sono accuse forti, perché noi sia nell’eucaristia che nei pranzi fra amici cerchiamo sempre la reciprocità una logica che, secondo Gesù, è estranea all’agire di Dio. Nella sua vita Gesù ha sempre cercato di incontrare quelli che erano esclusi, dalla società, dalle famiglie, anche dal tempio, comprese le comunità carismatiche e ispirate del suo tempo, come erano i farisei.

Anche per noi discepoli di Gesù degli anni duemila, accogliere questa logica diviene fonte di beatitudine: “sarai beato perché non hanno da ricambiarti”, cioè sarai beato perché questa logica pone nella strada tracciata da Gesù, ci fa partecipare alla sua capacità di amare unilateralmente gli uomini nel loro peccato e nella loro inimicizia.

Il testo più famoso in cui appare questa logica è quello della lavanda dei piedi: Gesù si inchina ai piedi di Giuda che meditava di tradirlo, di Pietro che lo avrebbe rinnegato, degli altri che sarebbero scappati e poi spiegando il suo gesto dice: “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri” non: “Come io vi ho amati, così anche voi amatemi”, ma amatevi tra voi, diffondete questo amore, vivetelo come l’ho vissuto io.

 

Commento di don Domenico Malmusi

26 agosto 2013

Vangelo E Comento Domenica 25 Agosto

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Sandro Botticelli - Punizione Dei Ribelli

Sandro Botticelli – Punizione Dei Ribelli

Dal Vangelo secondo Luca 13,22-30.
Passava per città e villaggi, insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme.
Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Rispose:
«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno.
Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete.
Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze.
Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità!
Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori.
Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio.
Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi».

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XXI domenica per annum

Dello stesso paese, stessa cultura.

Il vangelo di oggi inizia con l’annotazione che Gesù sta camminando verso Gerusalemme. Sembra una cosa banale ma in realtà è molto importante: indica la tensione di Gesù verso il compimento del senso della sua esistenza, ci mostra che tutto il suo agire ha sempre come orizzonte il dono della vita nella città santa di Gerusalemme. In questo contesto diventa molto importante la domanda che gli viene posta, perché sembra quasi un riconoscimento della sua missione: Gerusalemme è il luogo della salvezza, il luogo a cui confluiranno tutte le genti, dice la prima lettura, per questo coloro che in qualche modo ‘appartengono’ a Gerusalemme, cioè gli ebrei in particolare quelli osservanti, presumono di avere un diritto di precedenza al tempo della manifestazione del salvatore, che potrebbe essere imminente. Ma a Gesù non interessa la domanda accademica che sa di dibattito sterile, quello che gli interessa è togliere all’uomo che lo interroga la falsa sicurezza che gli viene da una concezione illusoria dell’appartenenza al Signore. La risposta di Gesù dunque ribalta la domanda, non c’è più l’interesse sul numero ma cosa fare per non essere esclusi, cioè da una domanda sugli altri si passa a qualcosa che riguarda se stessi.

Per prima cosa Gesù invita a lottare. Sforzatevi non è la traduzione migliore, il verbo indica di più l’idea del combattere, lottare, allenarsi. Anche Gesù ha lottato nella sua vita, il momento delle tentazioni e il momento del Getsemani sono descritti come momenti di grande lotta. Lo sforzo a cui ci invita Gesù non è lo sforzo sterile e sfibrante che facciamo nelle nostre lotte di potere, nella continua gara a cui il mondo ci costringe per primeggiare, per arricchire. Questi sforzi tolgono le energie, ci lasciano sempre più svigoriti e amareggiati, tolgono la gioia di vivere. Non si tratta di sgomitare per giungere davanti alla porticina per primi. Lo sforzo che indica Gesù è quello dell’atleta in allenamento, uno sforzo costante, sicuramente faticoso, ma che permette all’uomo di partire dalle proprie forze per diventare sempre più forte e sempre più vivace e incisivo. L’idea principale mi sembra la costanza, la fedeltà.

Lo scopo dello sforzo è quello di passare dalla porta stretta, un’immagine sicuramente oscura per noi. Ma se pensiamo alle città antiche sia medievali che dei tempi di Gesù forse riusciamo a comprenderla meglio. Come sappiamo le città erano circondate da mura e, al calare delle tenebre, le porte venivano chiuse, non solo quelle della città ma anche quelle dei grandi palazzi. Rimaneva l’accesso solo da una porticina: non si poteva sfuggire; se volevi entrare dovevi passare per quella, in un certo senso venivi misurato da quella piccola porta. Ecco cosa dice Gesù: occorre presentarsi uno alla volta davanti a quella piccola porta per essere riconosciuto. Il padrone che chiude la porta non è immagine di rifiuto o di condanna, ma semplicemente della necessità di essere riconosciuti. La risposta del padrone a quelli che bussano è proprio: “Non vi conosco, non so di dove siete”. E il vangelo è molto chiaro e diretto, coloro che si sentono dare questa risposta sono coloro che si vantano: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza, e tu hai insegnato nelle nostre piazze” cioè: abbiamo frequentato la chiesa, partecipato alla tua cena, ti abbiamo organizzato mega raduni… Ma non è questo che ha predicato Gesù. Non ha predicato una religione dell’apparenza, il cercare rilevanza con le forze del mondo, vivere la liturgia come un accumulo di punti paradiso. È un’altra cultura questa, come se si fosse di un altro paese, con un’altra lingua, un altro modo di vedere la vita: “Non vi conosco, non so di dove siete”. Bisogna avere nel cuore la cultura di Gesù, la sua lingua, il suo modo di pensare e di intendere la vita. Bisogna agire con lo stesso interesse di Gesù, compiere la volontà del Padre.

Gesù rovescia le concezioni del mondo: “Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi”, ma non semplicemente scambiando le posizioni da discendenti ad ascendenti, dove la classifica resterebbe identica, non dice che tutti i primi saranno ultimi, ma che il nostro modo di misurare non è corretto. La misura è Gesù: i nostri pensieri, il nostro modo di vedere la vita, i nostri interessi devono essere ricalcati sui suoi fino a quando non avremo, come lui, la sensazione di essere in presenza di un mondo lontano, capovolto, alieno alla nostra vita. Quando capiremo veramente di non essere del mondo, come Gesù non era del mondo, di avere altri interessi e altri pensieri, come Gesù aveva altri interessi e altri pensieri, non possiamo dire di essere come lui, di avere la sua cultura, il suo stile, la sua concezione di giustizia.

E il rischio è quello di sentirsi dire: “Non so di dove siete, allontanatevi da me, voi operatori di iniquità”.

Commento di don Domenico Malmusi

21 agosto 2013

Vangelo E Commento Domenica 18 Agosto

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Michelangelo Buonarroti - Il Profeta Geremia, 1512 Circa, Cappella Sistina

Michelangelo Buonarroti – Il Profeta Geremia, 1512 Circa, Cappella Sistina

Dal Vangelo secondo Luca 12,49-53.
Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse gia acceso!
C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!
Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione.
D’ora innanzi in una casa di cinque persone
si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

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XX domenica per annum

Fuoco che arde

Pochi capitoli prima del testo appena ascoltato Giacomo e Giovanni chiedono a Gesù di poter invocare un fuoco dal cielo che distrugga un villaggio di samaritani che non li hanno accolti. Gesù li rimprovera perché lui non è venuto per condannare e distruggere ma con uno scopo molto diverso. Il fuoco che porta non è dunque il fuoco distruttivo e di condanna ma il fuoco della passione, dell’amore. Anche il profeta Geremia, che come abbiamo sentito nella prima lettura, spesso è osteggiato, incarcerato, vilipeso, parla del fuoco della passione: c’è un testo molto bello in cui il profeta, ad un certo punto della sua vita così difficile, si lamenta con Dio dicendo che vuole smettere di essere la sua voce, che non ne può più della violenza che si abbatte su di lui, ma immediatamente continua dicendo che sente in sé un fuoco divorante, una passione che lo ‘costringe’ a proseguire nella sua missione.

Questo stesso fuoco è quello che Gesù ha dentro di sé e che vorrebbe accendere su tutta la terra: un fuoco di passione che scalda e illumina ma con un costo molto alto perché per diventare luce e calore consuma chi lo porta in sé. La spiegazione di questo Gesù la fa attraverso l’immagine del battesimo che è profezia della morte violenta che subirà, compimento della passione che lo ha bruciato e consumato completamente.

Ma questa passione che brucia porta in sé anche la divisione: prendere posizione in modo deciso per la giustizia che viene da Dio porta a scontrarsi con l’ingiustizia del mondo, quella che attraversa ogni istituzione umana, ogni uomo. Le parole di Gesù sul mettersi padre contro figlio sono un richiamo ad un testo del profeta Michea che vede appunto l’ingiustizia, presente in ogni situazione umana, messa in evidenza dalla luce della giustizia di Dio. Anche Gesù, con la sua vita radicalmente giusta provoca e mette in luce la divisione e l’abuso che attraversano anche le nostre relazioni più importanti. L’amore per Gesù, la passione accesa nel cuore causa divisione, occorre molto coraggio per scegliere lui anche se, emerge dal testo, non è il coraggio il tratto fondamentale del discepolo.

Subito dopo queste parole Gesù rimprovera le folle per l’incapacità che dimostrano verso il discernimento: “Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete valutarlo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?”. Sono parole molto forti, che la storia della chiesa spesso ha cercato di dimenticare per la fatica che esse comportano. Gesù invita a fare discernimento giorno per giorno, situazione per situazione, senza delegare ad altri, senza trovare risposte preconfezionate. Spesso con la scusa che Gesù invita a non giudicare abbiamo abdicato all’obbligo del discernimento. È vero che Gesù invita a non fare un giudizio di condanna sulle persone, a non sentirsi migliori e per questo giudici degli altri, ma chiede anche con fermezza di operare un giudizio sulla storia, cioè di individuare quali strade conducono al bene e quali invece sono un inganno per l’uomo. Vivere secondo il vangelo richiede di assumersi pienamente la responsabilità della propria vita e delle proprie scelte, cioè esercitare giorno dopo giorno l’arte del discernimento, quella pronta e vigile capacità di capire e scegliere ciò che è bene in ogni situazione. Non ci sono ricette predefinite per tale discernimento: si tratta di leggere e interpretare i segni che la vita pone davanti a noi, di aderire alla realtà e di vivere in essa sulle tracce di Gesù.

È un’operazione che richiede prima di tutto una coscienza formata: la coscienza si forgia alla luce della parola di Dio, con l’assiduità all’ascolto e con il tempo per meditare. Poi occorre una grande coerenza morale: cioè non leggere i segni alla luce del proprio interesse o comodità ma nel loro significato più pieno. Infine richiede la capacità di mantenere accesa la passione che il Signore ha acceso nel nostro cuore. Il nostro mondo sostiene che l’amore si spegne, che le passioni si smorzano, che il fuoco impallidisce… ma l’amore si spegne quando non sappiamo prendercene cura, quando lo diamo per scontato, quando pensiamo troppo facilmente che sia in qualche modo indipendente rispetto alla nostra volontà. Invece l’amore è via e come ogni vita deve essere nutrito, curato, mantenuto acceso. Si tratta di essere fedeli a se stessi, alle proprie scelte e compiere ogni giorno ciò che la mia vita richiede con costanza e con affetto.

Se ascoltiamo veramente il vangelo ci accorgiamo che il cristianesimo è vita e fuoco, passione e desiderio, avventura e bellezza, qualcosa che vale sempre la vivere, vivere pienamente, al punto di consumarsi totalmente.

 

Commento di don Domenico Malmusi

6 agosto 2013

Vangelo E Commento Domenica 4 Agosto

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Jan Provoost - La Morte E L'Avaro, Prima Metà Del 16 Secolo

Jan Provoost – La Morte E L’Avaro, Prima Metà Del 16 Secolo

Dal Vangelo secondo Luca 12,13-21.
Uno della folla gli disse: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità».
Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?».
E disse loro: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni».
Disse poi una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto.
Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti?
E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni.
Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia.
Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?
Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio».

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XVIII Tempo per annum

Costruire granai

Non è strano che qualcuno inviti Gesù a fare da giudice in una questione di eredità. Gesù è un rabbi e i rabbini non erano solo teologi e maestri ma, in quanto studiosi della legge di Dio, anche giuristi e quindi potevano essere chiamati a risolvere questioni di diritto. Ma Gesù, come è suo solito, non si lascia trascinare nella casistica e va alla radice della questione. E denuncia l’istinto del possedere sempre di più: questo è l’errore, la mentalità da cui convertirsi: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni». Gesù non condanna il semplice possesso, ma l’illusione di trovare sicurezza nel possesso.

Poi Gesù racconta la parabola dove il protagonista non fa cose disoneste ma si rivela uno stolto, perché nelle sue considerazioni non ha altro interlocutore che se stesso e non pensa che se la sua “vita” è soltanto quanto possiede nel momento in cui questa gli viene tolta è come se non avesse mai veramente vissuto. L’idea che Gesù sviluppa nella parabola appartiene già alla tradizione sapienziale. È il concetto di «vanità» che abbiamo sentito dal libro di Qohelet: «Vanità delle vanità, tutto è vanità». Che significa: tutte le cose che l’uomo cerca e fa mantengono meno di quanto promettono, alla fine risultano inconsistenti vacue e vane come se fossero fatte di vapore (la parola tradotta con vanità significa in ebraico vapore leggero). Qohelet evidenzia tre forme di vanità: la sterilità dello sforzo dell’uomo; la fragilità dei traguardi raggiunti; le numerose anomalie e ingiustizie di cui è piena la vita. Anche Gesù è fondamentalmente d’accordocon il Qoelet, lui però non solo la vanità degli sforzi dell’uomo ma indica la via della vera liberazione: «Così è di chi accumula tesori per sé e non arricchisce davanti a Dio». È l’orientamento su sé stessi che è errato, è questo che deve essere sostituito da un altro orientamento, cioè davanti a Dio. Nella continuazione del vangelo Gesù delinea meglio il significato dei questo arricchire. Arricchire davanti a Dio significa, non cadere nella tentazione dell’affanno, dell’ansia, come se tutto dipendesse da noi; significa subordinare tutto – il lavoro, il possesso, la vita stessa – al Regno di Dio; significa, infine, «dare in elemosina». Davanti a Dio significa dunque vivere per gli altri. L’arricchire per sé è prigioniero della vanità. Invece la ricchezza donata, la fraternità, l’amore sono valori che non vengono meno.

E’ un vangelo che ci interroga in modo concreto sul fondamento della nostra vita: da che cosa dipende la mia vita? Su quale sicurezza è edificata? Quale il bene prezioso che mi sta a cuore e quale la logica che mi guida nelle scelte quotidiane e in quelle che mi definiscono? Questa logica non si rivela nelle parole o nelle scelte fatte “alla luce del sole”, ma nella vita nascosta, quella più intima e segreta, quella in cui maturano le scelte che sentiamo più nostre.

Mi piace poi sottolineare che il vangelo poi non dice mai che non si debbano fare azioni intelligenti che preparano il futuro, non è condannata l’idea di costruire granai più grandi. Non è condannata nemmeno l’idea di riposarsi, di mangiare bene e di fare festa: il problema è perché e per chi li facciamo. Si tratta di vivere le cose di cui siamo responsabili e di saperle predisporre per gli altri, anziché solo per noi stessi. Il vangelo ci invita a raggiungere la capacità di preparare per gli altri una eredità che renda ricca e bella la loro vita, e lo sarà di più anche la nostra!

Conosciamo tutti delle storie di vita che non hanno disposto per gli altri dei loro beni, ma hanno costruito granai per sé, impoverendo la generazione successiva e mettendola in condizione di dover ricominciare dall’inizio perché nessuno prima di loro ha fatto tesoro per gli altri della ricchezza disponibile…

È la storia dell’Italia, di tante comunità civili e religiose, è la storia di molte famiglie. Non possiamo più permettere che qualcuno cerchi di sottrarre alla generazione successiva i loro diritti, lasciando ai pochi che vivono con coscienza il senso di colpa per ciò che i figli non possono avere…

È il tempo di una riflessione seria, fatta davanti a Dio, cioè nella preghiera, una preghiera personale e una riflessione comunitaria perché i nostri grandi granai diventino davvero vita per tutti.

 

 

Commento di don Domenico Malmusi

 

2 agosto 2013

Vangelo E Commento Domenica 28 Luglio

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Il Discorso Della Montagna - Carl Heinrich Bloch (1890)

Il Discorso Della Montagna – Carl Heinrich Bloch (1890)

Dal Vangelo secondo Luca 11,1-13.
Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli».
Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non ci indurre in tentazione».
Poi aggiunse: «Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani,
perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti;
e se quegli dall’interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è gia chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli;
vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza.
Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.
Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe?
O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?
Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!».

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XVII Tempo per annum

Dio realizza

Il tema al centro del vangelo di questa domenica è quello della preghiera, una preghiera fiduciosa e confidente. Anche la prima lettura mostra la confidenza che ha Abramo nella sua relazione con Dio, tanto che non teme di insistere fino a diventare fastidioso e molesto. Però, prima ancora della sfrontatezza fino alla molestia il vangelo dice un’altra cosa molto importante e cioè che a pregare si impara: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli” dicono i discepoli a Gesù. La domanda non nasce tanto dal fatto che i discepoli vedono Gesù pregare; se leggiamo bene, il vangelo dice solo che era in un luogo a pregare, quindi più che vederlo sanno che lui prega. I discepoli colgono la qualità della vita di Gesù, il modo con cui affronta la realtà e con cui si pone nei confronti delle cose di tutti i giorni e comprendono che questo è frutto della sua preghiera. La preghiera quindi non è qualcosa che si deve vedere, ma è qualcosa di cui ci si accorge percependo la qualità di vita delle persone.

Proprio per questo il vangelo non si dilunga mai in descrizioni di Gesù che prega ma, semplicemente, ci consegna la centralità della preghiera nella sua vita. Gli unici momenti in cui è decritta la preghiera del Signore è durante la trasfigurazione e nell’orto degli ulivi. Al cuore della vita cristiana c’è dunque la preghiera, una preghiera costituita soprattutto dall’ascolto e dal pensare: una bellissima definizione della preghiera è pensare davanti a Dio. Certo non divagare o fantasticare, c’è un contenuto importante che deve esserci in questo nostro pensare e Gesù consegna ai discepoli proprio questo contenuto, quello che potremmo chiamare la “matrice” della preghiera cristiana.

Si tratta semplicemente di un modello, non tanto una formula fissa, e lo si capisce dal fatto che i vangeli hanno due varianti, questa di Luca e quella più nota e maggiormente usata di Matteo. Proprio dal che esistono due redazioni emerge un insegnamento importante: nella preghiera non contano le parole, nemmeno se sono quelle di Gesù; le parole non hanno un senso magico, come invece pensano i pagani. Al di là delle parole dunque quello che interessa sono le caratteristiche della preghiera cristiana che sono prima di tutto la relazione filiale, con la consapevolezza che la preghiera è prima di tutto spazio, disponibilità all’azione di Dio in noi. È un richiamo all’atteggiamento di ascolto di Maria di Betania, il brano letto domenica scorsa. La preghiera è prima di tutto ascolto, per cui al centro c’è davvero un silenzio che si fa accoglienza. Tutta la grande tradizione biblica parta dalla preghiera dello Shemà Israel, Ascolta Israele, l’ascolto, il sentirsi figli del Padre plasma il nostro cuore.

Subito dopo la preghiera insegnata da Gesù tocca la concretezza e quotidianità della vita: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Si tratta del pane della nostra giornata, il sufficiente. È facile comprendere il richiamo al famoso episodio della manna nel tempo dell’Esodo: il dono della manna, pane che accompagnava il cammino nel deserto, c’era ogni giorno, ma non si poteva accumulare. C’è un profondo senso di sobrietà e di comunitarietà in questa richiesta.

La preghiera poi porta verso gli altri e l’amore a Dio si concretizza nell’amore verso il fratello, soprattutto nell’esperienza del perdono, ricevuto e donato. Non c’è separazione o contrapposizione tra il Signore e i fratelli, anzi c’è la certezza che solo nell’unione tra i due poli, Dio e il fratello, vi può essere la sintesi più autentica della vita cristiana. Il vangelo è molto lontano dallo spiritualismo disincarnato incapace di condurre al fratello. La spiritualità si misura nella crescita della capacità di andare verso l’altro.

L’ultima richiesta nasce dalla certezza della nostra fragilità: “non lasciarci soccombere nella tentazione”. L’esperienza salvifica vera è la fragilità redenta, cioè la consapevolezza che la nostra fragilità ci accompagnerà sempre, non per ricordarci una condanna, bensì perché diventiamo capaci di invocare chi può donarci la salvezza: il Signore, che, come sappiamo, tante volte si mostra nel volto del fratello che cammina con noi.

Il brano di vangelo poi si conclude con un’altra rassicurazione del Signore: il dono dello Spirito che non viene negato a chi lo chiede. Gesù vuole che acquisiamo la consapevolezza che Dio ascolta sempre e ci esaudisce: “chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”. Attenzione però, nel vangelo non c’è scritto “chiedete e vi sarà dato quello che chiedete”, ma semplicemente “chiedete e vi sarà dato”. Dio ascolta ed esaudisce ma a modo suo: diceva Dietrich Bonhoeffer che Dio non realizza tutti i nostri desideri, bensì tutte le sue promesse.

 

Commento di don Domenico Malmusi

25 luglio 2013

Vangelo E Commento Domenica 21 Luglio

Filed under: Prima Pagina,Vangelo — Insieme @ 06:42
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Cristo in casa Di Marta E Maria - Jan Vermeer Van Delft, 1654

Cristo in casa Di Marta E Maria – Jan Vermeer Van Delft, 1654

Dal Vangelo Luca 10,38-42.
Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa.
Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola;
Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti».
Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose,
ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta».

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XVI Tempo per annum

Marta, Marta!

Domenica scorsa abbiamo ascoltato la parabola del buon samaritano e, nel vangelo, il brano immediatamente dopo è questo di Marta e Maria dove Gesù viene accolto e nutrito. Lui che è il vero buon samaritano, mette in circolo una realtà di attenzione e di accoglienza in cui, a sua volta, entra come oggetto della cura e delle sollecitudini.

La prima persona che appare in scena è Marta, la vera protagonista del racconto, anche se il primo atteggiamento descritto è invece quello di Maria, che ascolta attentamente Gesù, mentre Marta è affannata, vittima dell’ansia che le impedisce di concentrarsi su una cosa, presuntuosa e in cerca di riconoscimento e di conferme. Questo non deve farci arrivare a conclusioni frettolose, in cui si disprezza chi si dà da fare per essere ospitale, voglio far notare che la prima lettura che abbiamo ascoltato ci presenta (lodandola) l’accoglienza un po’ affannosa di Abramo. Questa è dunque la chiave di lettura per aprire il vangelo. Se leggessimo i due episodi separatamente saremmo portati a a leggere come positiva l’esplosione di gesti, di preparativi, di doni da parte di Abramo verso i tre ospiti alle querce di Mamre, e a leggere in termini decisamente negativi i molti servizi di Marta nella casa, la casa dell’amicizia, di Betania. Ma la lettura tutto positivo-tutto negativo è sempre troppo rigida, lontana dalla vita vera. C’è attenzione in Abramo che corre e dà ordini, così come c’è affetto in Marta che non sa più cosa inventare per il suo amico, il Rabbi di Nazareth. Far da mangiare, preparare un buon pranzo, presentare in tavola del cibo curato è uno dei gesti più significativi del voler bene all’altro. È dare vita all’altro.

Ospitare però non è solo “fare cose” per chi ci visita, ma anche dargli del proprio tempo, fare di sé uno spazio per l’altro attraverso l’ascolto. Accogliere e ospitare richiede presenza, calma, attenzione. Ecco perché Gesù distingue tra “le molte cose” per le quali Marta si preoccupa e “l’unica cosa necessaria”, la parte buona scelta da Maria.

Come abbiamo ascoltato Marta è affannata, è in balia della preoccupazione, e questa è una delle cose maggiormente rimproverate da Gesù ai sui discepoli: “Non preoccupatevi del domani, ma cercate prima il Regno di Dio” (Lc 12,31); “State bene attenti che i vostri cuori non siano appesantiti dalle preoccupazioni” (Lc 21,34). L’affanno rischia di far perdere il centro, il carattere primario di ciò che si sta vivendo. La parte buona scelta da Maria non è l’inattività, non è la contemplazione o la preghiera invece del servizio e delle cose della terra, ma il fatto di mettere al centro Gesù. Marta, preoccupata di fare bella figura, di essere riconosciuta, di essere lodata mette al centro solo se stessa. Questo è il grande rischio dell’attivismo frenetico: sentirsi protagonisti assoluti, diventare signori e padroni della vita di tutti coloro che ruotano intorno a noi, fino a voler disporre anche di Gesù e farsi ascoltare da lui invece di ascoltarlo. È l’assenza di ascolto che Gesù rimprovera a Marta. Non basta servire, cioè fare delle cose, occorre diventare servi, cioè cambiare interiormente, e Maria, stando ai piedi di Gesù per ascoltare la sua parola, è come la serva del Signore attenta alla sua voce che si lascia plasmare dalla sua parola. Un’altra Maria, prima di lei, si è lasciata plasmare dalla Parola diventando colei che ha generato la Parola.

Un aspetto molto interessante però è il fatto che Gesù, pur con un rimprovero, mette Marta al centro del racconto. Nel racconto delle querce di Mamre Sara è in disparte, è considerato alla stregua di una schiava, mentre gli ospiti mangiano lei è nascosta nella tenda. Ma gli ospiti la portano in luce, la rendono protagonista della promessa di Dio. Anche a Betania Marta, che è la padrona di casa, la persona che apre la sua porta a Gesù è come dimenticata, confinata nel lavoro, accettando che dia di se stessa l’immagine più riduttiva. Con il richiamo solenne, indicato dalla ripetizione del nome è riportata al centro dal Signore Gesù, ospitato nella casa di Betania, da una donna che si chiama Marta.

Commento di Don Domenico Malmusi

 

15 luglio 2013

Vangelo e Commento Domenica 14 Luglio

Filed under: Prima Pagina,Vangelo — Insieme @ 19:38
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The Good Samaritan - Théodule-Augustin Ribot, before 1870

The Good Samaritan – Théodule-Augustin Ribot, before 1870

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 10,25-37.
Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?».
Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?».
Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso».
E Gesù: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?».
Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.
Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte.
Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre.
Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione.
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui.
Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.
Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?».
Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: « Va’ e anche tu fa’ lo stesso ».

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XV Tempo per annum

Stare accanto

La parabola del buon samaritano la conosciamo bene. Se non fosse che sappiamo che è una storia raccontata da Gesù accuseremmo l’autore di essere il solito anticlericale, che si diverte a parlar male dei preti e di tutto il loro entourage, che salva soltanto extracomunitari e miscredenti. Ma la parabola è di Gesù, quindi non possiamo permetterci di liquidarla senza accogliere la forza di provocazione che contiene. Il contesto dell’episodio, in cui nasce poi la parabola, è quello delle parole. Parole corrette, colte, teologiche. Parole che affascinano, che fanno nascere un dibattito, delle esposizioni dottrinali, ma che contengono anche il rischio dell’inganno, del tranello, della messa alla prova. Le parole in sé sono importanti, sono anche giuste, ma non è qui il problema. Gesù dice al ‘teologo’ che lo ha interpellato: “Hai risposto bene…” cioè ha capito qual è il cuore della Scrittura, ha saputo associare due comandi contenuti in due libri diversi, è uno che sa destreggiarsi all’interno della Bibbia. Del resto la prima lettura ci rassicura sul fatto che il comando di Dio è accessibile, vicino a tutti, fatto di parole comprensibili. Ma questo non basta, occorre un fare che renda veritiere le parole, una concretezza di azione che si contrappone con forza alle illusioni dei ‘parolai’.

Non è facile però uscire dal culto delle parole, dal piacere del dibattito, tanto che il dottore della legge continua a interrogare Gesù: “E chi è il mio prossimo?” domanda alla quale Gesù risponde con la parabola e con un’altra domanda: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. La risposta è il segno dell’intelligenza, della capacità di penetrare le parole che il dottore della legge aveva già dimostrato nella risposta precedente. Non si limita a riprendere delle parole usate da Gesù ma risponde con una rielaborazione propria: “Chi ha fatto misericordia” (la nostra traduzione dice chi ha avuto misericordia, ma la volgata, il testo latino ufficiale, dice fecit misericordiam). Ha capito bene lui che la misericordia non può essere solo un sentimento, l’ascolto della Parola di Dio deve arrivare a coinvolgere tutto il corpo del credente, le sue scelte, le sue azioni. Amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le sue forze e il prossimo come se stesso significa mettere in campo tutte le proprie potenzialità, usare bene tutti nostri sensi: vedere, provare compassione, farsi vicino, prendersi cura, farsene carico, spendere del proprio sono le azioni del samaritano, sono i verbi della vita fraterna, i verbi di chi si sente responsabile dell’altro.

Per la seconda volta Gesù risponde al dottore “fa’”: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso” cioè lasciati toccare dal bisogno dell’altro, ascolta il gemito di chi soffre, fattene responsabile. Nell’omelia che Papa Francesco ha tenuto a Lampedusa dice: “Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro.”

Ma anche quando lo sentiamo come affare nostro credo che dovremmo analizzare a fondo ciò che sentiamo e facciamo: molti di noi sono capaci di spendersi per gli altri, di fare molte cose buone e importanti ma spesso ascoltando più se stessi che il bisogno dell’altro. Vogliamo essere protagonisti pensando di sapere cosa occorre fare, siamo capaci di grandi sforzi ma forse non sappiamo interrompere il nostro viaggio, fermarci, ascoltare, cioè farci prossimi. Nelle azioni del samaritano non ci sono solo cose da fare ma anche atteggiamenti da tenere: non dice nulla, cioè ascolta, non solo con le orecchie ma anche con gli occhi, con le mani; si fa vicino, cammina accanto. È un atteggiamento umile, silenzioso, l’atteggiamento di chi sta accanto. È alla scuola del sofferente che possiamo imparare l’umiltà, che impariamo ad essere come il samaritano, come Gesù. Chi ha avuto l’opportunità di stare vicino a un malato o a un morente testimonia che è più ciò che ha ricevuto di ciò che ha effettivamente dato perché il sofferente, nella sua impotenza, rende chi gli si fa vicino capace di essere compassionevole come Dio, cioè di diventare perfetto come il Padre.

 

Commento di don Domenico Malmusi

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