Parrocchia Di Collegara-San Damaso

2 gennaio 2015

Vangelo E Commento 01 Gennaio 2015 – Ottava di Natale

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Andrea Mantegna – Presentazione Al Tempio,1455, tempera su tela, Gemäldegalerie Berlino

Andrea Mantegna – Presentazione Al Tempio,1455 tempera su tela Gemäldegalerie Berlino

Dal Vangelo secondo Luca 2,16-21.
In quel tempo, i pastori andarono senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia.
E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano.
Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.
I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
Quando furono passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre.

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Ottava di Natale

Non schiavi ma fratelli

Le ultime parole del vangelo di oggi riferiscono dell’usanza ebraica di imporre il nome nel momento della circoncisione, all’ottavo giorno dalla nascita del bambino. In sè è una notizia molto normale, ma è proprio questa sua normalità che acquista importanza nel vangelo.

Per prima cosa mi sembra importante notare che Gesù entra nel mondo in un luogo preciso, con una cultura, delle usanze che determinano la sua identità. Gesù non è un uomo generico, assimilabile a qualsiasi cultura, ad ogni epoca, ma un uomo con una identità chiara, appartenente ad un gruppo preciso, una nazione precisa con una sua cultura, con le tradizioni tipiche della religiosità biblica. Per uscire dai confini ristretti dell’appartenenza giudaica ha dovuto compiere un cammino, ha dovuto scegliere come vivere da uomo libero senza rinnegare la sua origine ebraica. È proprio questa identità certa che rende possibile l’incontro con gli altri uomini, il confronto costruttivo, che arricchisce.

Purtroppo noi abbiamo paura delle differenze, temiamo che l’identità dell’altro sottragga qualcosa alla mia, siamo molto più propensi a vedere nel diverso un nemico che non una possibilità di arricchimento. Nel messaggio per la giornata della pace papa Francesco parla di fraternità dichiarando che “fraternità esprime anche la molteplicità e la differenza che esiste tra i fratelli” e poi, citando la lettera ai Romani, afferma che “Gesù è il primogenito fra molti fratelli”. Quel Gesù, con le sue caratteristiche fisiche, ambientali, culturali. Certo non è facile essere fratelli, la prima vicenda biblica che riguarda dei fratelli, quella di Caino e Abele, “evidenzia il difficile compito a cui tutti gli uomini sono chiamati, di vivere uniti, prendendosi cura l’uno dell’altro”. La storia ci insegna che “fin da tempi immemorabili, le diverse società umane conoscono il fenomeno dell’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo” cioè si rendono schiavi i fratelli, coloro che Dio ha liberato come afferma la seconda lettura: “non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio”. Essere figli e fratelli non significa annullare le differenze ma affermare la propria identità non in contrapposizione all’altro ma per poter incontrare l’altro. Gesù è dunque un ebreo, che porta nella sua carne il segno dell’appartenenza alla discendenza di Abramo, quella discendenza che è benidizione per tutte le famiglie della terra. Questa sua identità certa lo porta a vivere la sua missione di salvatore dell’umanità, attraverso un percorso che è voluto da Dio, in alleanza con lui, ma che è un percorso umano, di ogni uomo.

Oltre a questo aspetto dell’appartenenza e dell’umanità c’è un altro aspetto importantissimo in questa breve frase. Il nome che viene dato al bambino viene dall’alto, non è scelto dai genitori ma profetizzato dall’angelo. È un nome che viene da Dio stesso, ed è un nome ‘teoforico’ cioè che porta, che contiene il nome di Dio. In ebraico il nome di Gesù si scrive Jehosuà: le prime due lettere sono l’inizio del nome di Dio, quel nome che nessun ebreo è autorizzato a dire, il tetragramma sacro composta da J, H, W, H e la cui pronuncia non conosciamo perché leggendo la bibbia lo si legge Adonai, Signore; le ultime lettere sono il verbo salvare; si capisce quindi il significato del nome Gesù: ‘Dio salva’, che può essere sia un’affermazione che un’invocazione. La cosa da notare è che ora, in Gesù, il nome di Dio diventa pronunciabile, non esiste più il divieto di nominare Dio. Nella cultura biblica dire il nome significa conoscere intimamente, possedere, è per questo che il nome di Dio è impronunciabile: lui è il totalmente altro, l’invisibile, l’eterno, nessun uomo può avere la pretesa di conoscerlo intimamente, di possederlo. Solo Gesù rende possibile questa intimità, questa piena comunione. In lui Dio si è fatto vicino, si è consegnato, è diventato visibile, si è donato a noi! Ora Dio è conosciuto, il suo nome non è più ineffabile, cioè inesprimibile, quindi sconosciuto, ma è diventato dicibile, conosciuto all’uomo, posseduto perchè donato. Posseduto non in senso di dominio ma come si ‘possiede’ l’amata o l’amato.

Siamo all’inizio dell’anno civile, di quel tempo che scandisce la nostra storia e, proprio in questo giorno, Dio pone il suo Nome su di noi. Quel nome che è la sua realtà più profonda, quel nome che è vita, benedizione, figliolanza, fraternità. Quel nome che è la nostra pace se sappiamo accoglierlo pienamente con la nostra umanità. Così forti della nostra identità potremo incontrare ogni uomo e scoprirlo fratello, non più schiavo, ma fratello.

Commento di don Domenico Malmusi

3 aprile 2011

Vangelo E Commento Di Domenica 3 Aprile

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Dal Vangelo secondo Giovanni 9,1-41.
Passando vide un uomo cieco dalla nascita
e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?».
Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio.
Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare.
Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo».
Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco
e gli disse: «Và a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)». Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: «Non è egli quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?».
Alcuni dicevano: «E’ lui»; altri dicevano: «No, ma gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!».
Allora gli chiesero: «Come dunque ti furono aperti gli occhi?».
Egli rispose: «Quell’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: Và a Sìloe e lavati! Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista».
Gli dissero: «Dov’è questo tale?». Rispose: «Non lo so».
Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco:
era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi.
Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo».
Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri dicevano: «Come può un peccatore compiere tali prodigi?». E c’era dissenso tra di loro.
Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «E’ un profeta!».
Ma i Giudei non vollero credere di lui che era stato cieco e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista.
E li interrogarono: «E’ questo il vostro figlio, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede?».
I genitori risposero: «Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco;
come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso».
Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano gia stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga.
Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età, chiedetelo a lui!».
Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Dà gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore».
Quegli rispose: «Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo».
Allora gli dissero di nuovo: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?».
Rispose loro: «Ve l’ho gia detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?».
Allora lo insultarono e gli dissero: «Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè!
Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia».
Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi.
Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta.
Da che mondo è mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato.
Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla».
Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?». E lo cacciarono fuori.
Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: «Tu credi nel Figlio dell’uomo?».
Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?».
Gli disse Gesù: «Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui».
Ed egli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi.
Gesù allora disse: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi».
Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo forse ciechi anche noi?».
Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane».

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IV domenica
Vedere bene
Il lungo brano di vangelo che abbiamo ascoltato, permette di cogliere quello che è un cammino di fede. Molti elementi ci consentono di entrare nella maturazione umana e cristiana dell’uomo visto da Gesù. Già questo è un primo elemento: Gesù sembra essere l’unico a vedere l’uomo per quello che è, i discepoli vedono un peccatore, i giudei un imbroglione, i genitori un figlio sì, ma dal quale prendere le distanze, i farisei un presuntuoso e un disonesto. Solo Gesù è l’uomo che vede e che conduce a vedere, questo è il percorso che ci viene proposto.
Come anche nel racconto della samaritana il modo in cui viene chiamato Gesù dall’uomo guarito è molto indicativo: prima è semplicemente quell’uomo chiamato Gesù, poi un profeta, uno che viene da Dio ed infine Signore. Questa evoluzione nel riconoscimento di Gesù segna non soltanto una crescita di tipo spirituale ma una vicenda di maturazione umana. Una maturazione ed una crescita che avvengono in un contesto difficile e di grande solitudine. È rifiutato da tutti: espulso dalla sinagoga, allontanato dai genitori, perfino Gesù lo lascia solo.
Ma questa lotta nella solitudine è necessaria per giungere ad una piena comprensione della verità di se stessi e del mondo. Una verità sconosciuta. È interessante notare che nel racconto tutti si affannano a dire di non sapere, “come ora ci veda non lo sappiamo” dicono i genitori, “costui non sappiamo di dove” dicono i giudei, pur affermando di saper riconoscere i peccatori. Anche il cieco guarito inizialmente non sa, non sa chi sia Gesù e nemmeno dove sia, poi, però, giunge a comprendere e sapere una verità molto umile ed esperienziale: “Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo”. Dalla coscienza di questo passaggio scaturisce poi la professione di fede, chi non passa dal buio alla luce non comprende Gesù e non crede in lui.
I giudei pretendono di vedere ma in realtà si chiudono alla verità, questo è il peccato. Il tema del peccato è molto forte in questo brano che si apre proprio con la domanda se quest’uomo abbia peccato. Che cos’è allora il peccato?
Il cieco è certamente un uomo che deve essere ri-creato: il gesto del fango, richiamato ben quattro volte, richiama la creazione di Adamo, è un uomo nato nei peccati, certamente, come tutti, ma non è la sua cecità il peccato, cioè non c’è un dato fisico che indica il peccato.
Il peccato non è quello dei genitori che, impauriti perché minacciati prendono le distanze dal figlio dichiarando che lui ha l’età, cioè la maturità per parlare. Evidentemente a loro manca, ma non è nemmeno nella mancanza di maturità il peccato.
Non è nemmeno nell’atteggiamento di Gesù che viola il sabato, perché “Dio non ascolta i peccatori… Se non venisse da Dio non avrebbe potuto far nulla”. Quindi violare un precetto non è peccato.
Gesù dice: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane” cioè afferma che il peccato è in chi ha la pretesa di vedere ma in realtà si chiude alla verità, soprattutto alla propria verità e, di conseguenza a quella di Gesù, luce del mondo.
“Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo” proclama l’uomo guarito: questa è la sua verità, l’accettazione della propria condizione di cieco e il riconoscimento del dono di Gesù. Una cosa non può essere senza l’altra. I farisei, ma come loro anche i discepoli, tentano di far ricadere il peccato sempre sull’altro, sul cieco, sui genitori, su Gesù, per non vedere la semplice verità del proprio peccato. Qui è il peccato, nella disonestà di chi modella la verità a proprio piacimento, di chi ha lo sguardo accecato dalla presunzione e non sa più vedere se stesso.

Commento di Don Domenico Malmusi

22 novembre 2010

Vangelo E Commento Di Domenica 21 Novembre

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Dal Vangelo  secondo Luca 23,35-43.
Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: «Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto».
Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell’aceto, e dicevano:
«Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso».
C’era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei.
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!».
Ma l’altro lo rimproverava: «Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena?
Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male».
E aggiunse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».
Gli rispose: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».

 

 

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XXXIV Tempo ordinario

Il Re è nudo

Duemila anni di storia cristiana non hanno spento nel cuore degli uomini il desiderio della rivincita, del supremazia, della potenza. Duemila anni di storia cristiana non ci hanno abituati all’esistenza fallimentare di Gesù, che muore abbandonato da tutti accanto a due malfattori. Per questo celebriamo feste con linguaggi trionfalistici, abbellendo quella realtà che ci pare troppo dura da vivere, poco allettante.

Ma non possiamo sfuggire alla chiarezza del vangelo: Gesù è solo. I suoi amici sono tutti dispersi, i capi del popolo esultano come chi ha vinto una sfida importante, i soldati lo deridono, la folla, muta, assiste allo spettacolo senza capire quale giudizio esprimere, un malfattore lo aggredisce, l’unico gesto vagamente umano è la compassione aspra significata dall’aceto. Tutti parlano di lui senza rivolgersi veramente a lui, tutti concentrati sullo stesso argomento. Se abbiamo ascoltato attentamente il vangelo notiamo che tutti coloro che parlano richiedono l’autosalvezza. Per Gesù queste parole non sono altro che la tentazione che ritorna, una tentazione che non è relegata ad un episodio un po’ strano all’inizio del suo ministero, ma che accompagna tutta la sua vita, proprio come accompagna la nostra. Credo però che l’aspetto più importante che emerge da questi discorsi sia legato all’immagine di Dio che hanno i credenti, quindi anche noi: la prospettiva dell’autosalvezza è la rappresentazione che noi abbiamo di Dio, proiettando su di lui i nostri sentimenti e le nostre aspettative cioè facendolo a nostra immagine. Secondo la mentalità comune la potenza si manifesta nella capacità di uscire vincitore da ogni evento, nell’essere più forte di tutti i nemici, di poter pensare sempre prima di tutto a se stessi. Il potere, prima di essere una responsabilità, è un’opportunità per chi lo esercita. Questo pensano tutti coloro che parlando di Gesù si riempiono la bocca di titoli divini. “Il Cristo… l’eletto” dicono i capi, “il Re (Messia)” dicono i soldati, “il Cristo” secondo il malfattore.

In mezzo a questo turbinio di titoli messianici spicca l’altro malfattore, l’unico in tutto il vangelo che chiama Gesù per nome senza nessun attributo aggiunto. Eppure proprio in questo chiamarlo solo con il nome, nella nudità della sua umanità, è pienamente riconosciuta la sua divinità. A quell’uomo nudo, appeso alla croce il malfattore rivolge una richiesta: “Ricordati…”. È la stessa preghiera di Mosè per il popolo peccatore: “Ricordati…” ricordati della tua promessa, della tua fedeltà, non pensare a meriti o demeriti, ricorda soltanto di essere Dio, il Dio che salva, che libera, che è fedele. In questa semplice parola è racchiusa tutta la fede.

La fede che si manifesta in un atto umanissimo di solidarietà. Gesù è un uomo innocente, condannato come un malfattore senza nessuna pietà e compassione. Nella partecipazione alla sua pena, nel vederne l’umanità umiliata e sfigurata il malfattore è in grado di sentire la vicinanza di Dio, un Dio che rinuncia alle prerogative e al potere per accogliere nel suo regno chi ha bisogno di lui.

Commento di Don Domenico Malmusi

25 ottobre 2010

Vangelo E Commento Del 24 Ottobre 2010

Icona del fariseo e del pubblicano, chiesa della Trasfigurazione, Marietta-Georgia

Dal Vangelo Secondo Luca

Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

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XXX Tempo ordinario

Fariseo o fariseo?

Il tema di domenica scorsa era la preghiera, in particolare l’idea che debba essere perseverante, ora il vangelo i propone un approfondimento diverso sullo stesso argomento. Dalla nostra preghiera quale immagine di Dio emerge? E di conseguenza quale immagine di me stesso e degli altri rivelo?

Il fariseo inizia la sua preghiera dicendo “O Dio…” ma in realtà Dio non c’entra molto con tutto il discorso. Quest’uomo è auto centrato, il suo discorso ruota attorno al compiacimento di sé e il disprezzo dell’altro. Queste due cose quasi sempre vanno di pari passo, per affermare me stesso, il primo gradino è inevitabilmente quello di abbattere l’altro, di disprezzarlo, umiliarlo.

Quale immagine di Dio lascia trasparire la preghiera del fariseo? Quella di un Dio che tiene i conti, un Dio a cui presentarsi per consegnare il punteggio conseguito, in realtà un Dio inutile, perché non fa altro che contare le buone o cattive azioni che ciascuno presenta, compito possibile anche per bambini in età prescolare. L’immagine di sé è superba e arrogante, l’altro è il termine di paragone, l’oggetto delle critiche e del disprezzo.

L’annotazione iniziale del nostro brano, “Gesù disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri” in realtà tocca ciascuno di noi: che ci piaccia o no, la nostra condizione spesso è più simile a quella dei farisei che non dei pubblicani, siamo sempre tentati di sentirci giusti, di giustificare ogni nostro comportamento, anche quelli palesemente contrari al vangelo e condannare gli errori altrui, perché questo consente di lasciare in pace la propria coscienza ed evita la fatica di ammettere i propri peccati.

Contrapposto al fariseo c’è il pubblicano: quest’uomo non osa nemmeno avvicinarsi al Santo dei santi, là dove c’è la presenza di Dio, non ha nulla da vantare, nessun merito su cui contare, sa che può solo implorare misericordia da parte del Dio tre volte Santo. Egli prova lo stesso sentimento di Pietro di fronte alla santità di Gesù, tanto che dopo l’episodio della pesca miracolosa dice: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore!”

L’ incontro con Dio e con Gesù Cristo coincide con lo svelamento all’uomo del proprio essere peccatore, ossia con la scoperta dell’abissale distanza che lo separa dal Signore. Ecco perché la preghiera: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» è quella che meglio esprime la nostra condizione: siamo chiamati a riconoscere il nostro peccato e le nostre cadute e ad accettare che Dio le ricopra con la sua inesauribile misericordia, l’unica cosa veramente necessaria nella nostra vita. Il pubblicano vede in Dio colui alla cui presenza si può deporre la propria vita, senza timore ma con il desiderio di essere avvolti dalla sua misericordia. Scoprire la propria condizione di peccatore e l’amore misericordioso del Signore sviluppa una coscienza di solidarietà nei confronti dell’altro, che può essere visto nel suo peccato ma mai condannato e disprezzato. Non c’è più bisogno di fare paragoni che producono disprezzo o invidia, occorre solo condividere il dono d’amore di Dio.

“Il pubblicano tornò a casa giustificato, a differenza del fariseo, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”.

Il racconto è racchiuso in una cornice che riprende l’idea dell’essere giusto: dalla presunzione di essere giusto del fariseo all’essere giustificato da Dio, da una visione di sé vanagloriosa ad una visione realistica. È nella verità che si incontra Dio.

Omelia di Don Domenico Malmusi

15 ottobre 2010

Vangelo E Commento Del 10 Ottobre 2010

I dieci lebbrosi, dettaglio, Duomo di Monreale.

Lc 17,11-19

+ Dal Vangelo secondo Luca
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

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XXVIII Tempo ordinario

Rendere grazie

Il cammino di Gesù verso Gerusalemme è scuola di vita per noi. Gli incontri narrati dal vangelo diventano motivo di insegnamento e riflessione per noi che ascoltiamo il racconto. L’incontro di oggi è con dieci lebbrosi. È noto che tutte le società antiche, compreso il popolo d’Israele ritiene la malattia strettamente connessa al peccato, quindi il lebbroso, che è colpito da una malattia tremenda che lo rende ripugnante come un cadavere, deve aver commesso un peccato veramente molto grave! Per questo, e per timore del contagio, veniva emarginato, doveva vivere fuori dalle città, in luoghi deserti, in una solitudine disperata secondo le indicazioni molto precise del libro del Levitico: “Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento.” (Lv 13,45-46). Obbedienti al comando della legge i lebbrosi si fermano a distanza e chiamano Gesù a gran voce. Lo chiamano per nome, come succede poche volte nel vangelo, come se si volesse sottolineare che stanno cercando una relazione personale. Questo fra l’altro sarebbe un tema da approfondire, perché i vangeli insistono molto sulla relazione personale con Gesù, è la relazione con lui, con la sua umanità, che permette l’esperienza della salvezza.

Davanti a queste persone Gesù si pone come un ligio osservante della legge. Sappiamo che di solito l’ubbidienza di Gesù è molto libera, spesso critica gli atteggiamenti di persone come i farisei e non si fa problema di toccare lebbrosi o di farsi toccare da pubbliche peccatrici, non si cura di osservare i precetti di purità rituale, di digiuno, dell’osservanza del sabato. Eppure in questo caso si mostra scrupoloso, il motivo potrebbe essere questo: secondo le indicazioni contenute nel libro del levitico è il sacerdote che ha il compito di diagnosticare la malattia ed è l’unico che può anche certificare l’avvenuta guarigione, Gesù dunque vuole che questi dieci lebbrosi siano reintegrati nella società, vuole che riabbiano la loro vita intesa in senso pieno, per questo li rimanda all’autorità.

È interessante notare che non c’è nessun gesto miracolistico e nessuna parola portentosa, semplicemente succede che l’ascolto di Gesù e il mettersi in cammino compiono la purificazione. A questo punto uno dei lebbrosi guariti trasgredisce al comando: invece di andare dai sacerdoti torna indietro per prostrarsi e ringraziare. Già questo semplice fatto lo pone nella linea di Gesù: la legge è in funzione della vita, non la vita in funzione della legge, ascoltare la legge, così come ascoltare Gesù, non ci esime dall’ascoltare la nostra coscienza, dall’interpretare gli eventi della nostra vita. Ci sarà tempo per i sacerdoti, è indispensabile passare da loro per essere riammessi nella società, ma ora è il temo di ringraziare, di lodare Dio a gran voce, esprimendo la propria gratitudine con gesti significativi, chiari: la lode a voce alta, il prostrarsi, il ringraziare sono segni umani, concreti, sono il modo per esprimere ciò che abbiamo dentro di noi.

Il ringraziamento poi è una delle esperienze umane più alte. Esprime la consapevolezza del dono ricevuto, l’umiltà di chi sa di non poter vivere senza il bene dell’altro, la coscienza che ciò che rende umana la vita non lo si può che ricevere gratuitamente. Anche dal punto di vista spirituale il ringraziamento è il culmine del cammino di fede. Quello che noi celebriamo ogni domenica, l’eucaristia, è un ringraziamento. Questo è il significato etimologico del termine eucaristia, divenuto per noi un termine tecnico che indica la messa, ma che dobbiamo re-imparare ad usare nel suo significato più profondo e più vero: dire grazie.

Omelia di Don Domenico Malmusi

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