Dal Vangelo secondo Luca 2,16-21.
In quel tempo, i pastori andarono senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia.
E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano.
Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.
I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
Quando furono passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre.
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Ottava di Natale
Non schiavi ma fratelli
Le ultime parole del vangelo di oggi riferiscono dell’usanza ebraica di imporre il nome nel momento della circoncisione, all’ottavo giorno dalla nascita del bambino. In sè è una notizia molto normale, ma è proprio questa sua normalità che acquista importanza nel vangelo.
Per prima cosa mi sembra importante notare che Gesù entra nel mondo in un luogo preciso, con una cultura, delle usanze che determinano la sua identità. Gesù non è un uomo generico, assimilabile a qualsiasi cultura, ad ogni epoca, ma un uomo con una identità chiara, appartenente ad un gruppo preciso, una nazione precisa con una sua cultura, con le tradizioni tipiche della religiosità biblica. Per uscire dai confini ristretti dell’appartenenza giudaica ha dovuto compiere un cammino, ha dovuto scegliere come vivere da uomo libero senza rinnegare la sua origine ebraica. È proprio questa identità certa che rende possibile l’incontro con gli altri uomini, il confronto costruttivo, che arricchisce.
Purtroppo noi abbiamo paura delle differenze, temiamo che l’identità dell’altro sottragga qualcosa alla mia, siamo molto più propensi a vedere nel diverso un nemico che non una possibilità di arricchimento. Nel messaggio per la giornata della pace papa Francesco parla di fraternità dichiarando che “fraternità esprime anche la molteplicità e la differenza che esiste tra i fratelli” e poi, citando la lettera ai Romani, afferma che “Gesù è il primogenito fra molti fratelli”. Quel Gesù, con le sue caratteristiche fisiche, ambientali, culturali. Certo non è facile essere fratelli, la prima vicenda biblica che riguarda dei fratelli, quella di Caino e Abele, “evidenzia il difficile compito a cui tutti gli uomini sono chiamati, di vivere uniti, prendendosi cura l’uno dell’altro”. La storia ci insegna che “fin da tempi immemorabili, le diverse società umane conoscono il fenomeno dell’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo” cioè si rendono schiavi i fratelli, coloro che Dio ha liberato come afferma la seconda lettura: “non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio”. Essere figli e fratelli non significa annullare le differenze ma affermare la propria identità non in contrapposizione all’altro ma per poter incontrare l’altro. Gesù è dunque un ebreo, che porta nella sua carne il segno dell’appartenenza alla discendenza di Abramo, quella discendenza che è benidizione per tutte le famiglie della terra. Questa sua identità certa lo porta a vivere la sua missione di salvatore dell’umanità, attraverso un percorso che è voluto da Dio, in alleanza con lui, ma che è un percorso umano, di ogni uomo.
Oltre a questo aspetto dell’appartenenza e dell’umanità c’è un altro aspetto importantissimo in questa breve frase. Il nome che viene dato al bambino viene dall’alto, non è scelto dai genitori ma profetizzato dall’angelo. È un nome che viene da Dio stesso, ed è un nome ‘teoforico’ cioè che porta, che contiene il nome di Dio. In ebraico il nome di Gesù si scrive Jehosuà: le prime due lettere sono l’inizio del nome di Dio, quel nome che nessun ebreo è autorizzato a dire, il tetragramma sacro composta da J, H, W, H e la cui pronuncia non conosciamo perché leggendo la bibbia lo si legge Adonai, Signore; le ultime lettere sono il verbo salvare; si capisce quindi il significato del nome Gesù: ‘Dio salva’, che può essere sia un’affermazione che un’invocazione. La cosa da notare è che ora, in Gesù, il nome di Dio diventa pronunciabile, non esiste più il divieto di nominare Dio. Nella cultura biblica dire il nome significa conoscere intimamente, possedere, è per questo che il nome di Dio è impronunciabile: lui è il totalmente altro, l’invisibile, l’eterno, nessun uomo può avere la pretesa di conoscerlo intimamente, di possederlo. Solo Gesù rende possibile questa intimità, questa piena comunione. In lui Dio si è fatto vicino, si è consegnato, è diventato visibile, si è donato a noi! Ora Dio è conosciuto, il suo nome non è più ineffabile, cioè inesprimibile, quindi sconosciuto, ma è diventato dicibile, conosciuto all’uomo, posseduto perchè donato. Posseduto non in senso di dominio ma come si ‘possiede’ l’amata o l’amato.
Siamo all’inizio dell’anno civile, di quel tempo che scandisce la nostra storia e, proprio in questo giorno, Dio pone il suo Nome su di noi. Quel nome che è la sua realtà più profonda, quel nome che è vita, benedizione, figliolanza, fraternità. Quel nome che è la nostra pace se sappiamo accoglierlo pienamente con la nostra umanità. Così forti della nostra identità potremo incontrare ogni uomo e scoprirlo fratello, non più schiavo, ma fratello.
Commento di don Domenico Malmusi