Parrocchia Di Collegara-San Damaso

24 marzo 2015

Vangelo E Commento Domenica 22 Marzo – 5a Domenica

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Don Giovanni Gilli - Gesù Crocifisso

Don Giovanni Gilli – Gesù Crocifisso

Dal Vangelo secondo Giovanni 12,20-33.
Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c’erano anche alcuni Greci.
Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli chiesero: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù.
Gesù rispose: «E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo.
In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna.
Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà.
Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!
Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!».
La folla che era presente e aveva udito diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato».
Rispose Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi.
Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori.
Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me».
Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire.

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5a Domenica

Se il chicco di grano…

Siamo ormai alla fine della nostra quaresima, domenica prossima, con la celebrazione delle palme entriamo nella settimana di Passione, e il vangelo ci prepara a questa grande settimana proponendo una riflessione sulla morte di Gesù.

Il racconto è ambientato nel tempio di Gerusalemme, dove Gesù vive la sua terza Pasqua come Maestro autorevole. Ha fatto il suo ingresso solenne come Messia riconosciuto ed è ormai noto che i sommi sacerdoti hanno preso la decisione di condannarlo a morte, perché preoccupati del successo che lo accompagna. Un segno di questo successo è anche il fatto che ‘alcuni greci’ cioè stranieri simpatizzanti o neoconvertiti all’ebraismo vogliono conoscerlo.

Questi avvicinano Filippo, che ha un nome greco e viene da un paese sul confine, quindi pensano che sia un po’ più aperto degli altri ebrei, che non incontrano volentieri i pagani. Filippo è un po’ titubante, va a riferirlo ad Andrea, uno dei discepoli più intimi di Gesù, poi, insieme, i due decidono di presentare la richiesta a Gesù. La sua risposta però è molto strana: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». È difficile capire se sia un sì o un no questo discorso. In realtà, se ascoltiamo bene, la risposta è un sì: Gesù afferma che è venuto il momento di far vedere chi è, è l’ora in cui sarà manifestato a tutti e attirerà tutti a sé dall’alto della croce. Lui vuole farsi vedere, vuole che la gente lo incontri e che lo incontri nel suo momento migliore quello della sua gloria massima. Per Gesù però è l’ora della morte in croce che diviene l’ora della gloria, l’ora in cui appare pienamente il suo amore vissuto all’estremo per gli uomini tutti.

Per spiegare questo Gesù utilizza la similitudine con il chicco di grano. La sua morte è una semina, nella quale il seme deve cadere a terra, essere sotterrato, morire come seme e dare origine a una nuova pianta che moltiplica i semi nella spiga. La morte è la tappa che permette al seme di liberare tutta la sua forza di vita. Se non c’è la morte questa forza di vita non si libera, se il chicco non muore rimane solo, e questo è il segno dell’inutilità della vita, è la realizzazione di ciò che vogliamo fuggire: la solitudine è uno dei problemi più grossi degli uomini, perché è ciò che più di tutto ci fa sperimentare la morte nella nostra esistenza. Trattenere per sé la vita, cioè non volerla donare significa non creare relazione autentiche, non fidarsi di nessuno ma anche di essere inaffidabili e questo porta alla solitudine. Certamente ciò che trattiene dal donare la vita è la paura di perderla, ma agire per paura porta quasi sempre a realizzare da soli ciò da cui si intende fuggire: per paura di morire donando la vita resto solo, cioè faccio un’esperienza di morte.

L’attaccamento alla vita, il timore di perderla è sempre fonte di compromessi che paralizzano il processo di crescita dell’amore, la vera morte è la sterilità di chi non vuole dare, di chi non spende la propria vita ma vuole conservarla gelosamente, mentre il dare la vita fino a morire è la garanzia di massima realizzazione, è vita abbondante, piena, significativa, per noi e per gli altri.

Tutto questo discorso nasce dall’osservazione della legge naturale, quella legge che accorda al seme la possibilità di maturare in vita nuova, ma questa legge naturale vale anche all’interno di un percorso spirituale: accogliere la propria debolezza, accettare di spogliarsi delle proprie presunzioni e delle proprie pretese, vivere giorno per giorno la sequela di Gesù in una prassi costante di amore donato è la via che conduce al morire a se stessi ed è proprio attraverso la morte che si giunge alla gloria della resurrezione.

Certamente è un percorso costoso, difficile, che può far paura. Anche Gesù è turbato davanti a questa prospettiva, come ogni uomo ha paura della sofferenza e della morte, ma ha fede nel Padre e questo gli permette di dire il suo sì, di andare avanti fino alla croce dove sarà innalzato come segno di vittoria di Dio, la vittoria di una debolezza più forte della violenza e del potere.

A chi voleva vederlo Gesù non si nega, ma si propone così, innalzato sulla croce che muore come un chicco di grano per generare un frutto di vita eterna.

Commento di don Domenico Malmusi

26 dicembre 2014

Vangeli E Commenti Natale 2014 – 24 E 25 Dicembre

Michelangelo Buonarroti - Madonna Con Il Bambino Data 1525 circa Tecnica Matita nera, matita rossa, biacca e inchiostro su carta Dimensioni 54,1 cm × 39,6 cm, casa Buonarroti, Firenze

Michelangelo Buonarroti – Madonna Con Il Bambino
Data 1525 circa
Tecnica Matita nera, matita rossa, biacca e inchiostro su carta
Dimensioni 54,1 cm × 39,6 cm, casa Buonarroti, Firenze

Dal Vangelo secondo Luca 2,1-14.
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra.
Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio.
Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città.
Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme,
per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta.
Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto.
Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo.
C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge.
Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento,
ma l’angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo:
oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore.
Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».
E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama».

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Natale notte

Dio nella storia

Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce. All’inizio della celebrazione abbiamo messo in evidenza le situazioni di tenebra che oggi avvolgono la nostra vita e che non possono essere eliminate con una festa del buonismo, che rende tutti buoni per un giorno in attesa che riaprano le banche per depositare ciò che abbiamo ricevuto in regalo. La risposta di Dio alle tenebre degli uomini è narrata nel vangelo che abbiamo ascoltato, un testo che abbbiamo trasformato in immagini romantiche per poterci fare il presepe ma che in sè è molto duro. C’è un fatto storico: un decreto dell’imperatore che si abbatte su tutti, ma che viene focalizzato nella sua ricaduta su una piccola e semplice famiglia. Così come il decreto di aumentare l’IVA ricade sull’ultimo personaggio della filiera della produzione: i consumatori, cioè le famiglie. Così come l’IMU o altre tasse. Così come tutti decreti dei ‘grandi’, di solito decisi con la connivenza di altri più o meno grandi – questo avvenne quando era governatore Quirino – hanno sempre una ricaduta esistenziale molto concreta. Questa è la storia, la nostra storia, una storia in cui gli eventi della nostra vita, le nostre relazioni affettive, le nostre scelte, la nascita di un figlio, la morte di una persona cara si intrecciano con le linee tracciate dai potenti.

È in questa storia che entra Dio. Ma per riconoscere la presenza di Dio nella nostra storia occorre un itinerario di fede: l’evento, cioè la nascita del bambino, richiede una Parola che lo illumini, lo interpreti, ne indichi il senso. È la parola di Dio, qui annunciata dagli angeli, ma che nella mia vita posso trovare nel testo sacro, nell’annuncio della chiesa. La Parola permette di compiere una lettura di fede degli eventi. Il racconto di oggi impressiona per questa capacità di leggere nella fede: il decreto di Cesare, gli alberghi pieni sembrano elementi messì apposta per condurre a Gesù, mentre nella realtà sono ostacoli ed impedimenti, fatiche per la vita di questa giovane coppia, ma che tuuavia non hanno la forza per fermare l’energia del vangelo e vengono riletti in un orizzonte nuovo. La realtà non viene storpiata, la fatica non viene eliminata ma tutto acquista un senso nell’orizzonte dell’annuncio.

Tutta la storia diventa il tempo in cui il Signore viene incontro a noi, anche se non è facile distinguerlo: il segno a cui siamo rimandati è ‘un bambino’ cioè l’umanità. È in questa logica del segno che possiamo comprendere e percorrere il cammino che il segno ci invita a fare. Il Natale non è la soluzione a tutte le cose che non vanno, ma il segno che può esserci un nuovo inizio. L’amore di Dio per il mondo non significa un intervento che faccia finire guerre e disastri, ma è nascosto e rivelato in Gesù: la carne di Gesù è il cardine della salvezza, la sua umanità che è la nostra stessa umanità.

Certo che l’umanità è fragile, debole, si può ammalare. Se non si vive questo movimento di lettura degli episodi della nostra vita come portatori di salvezza ci si ammala nell’anima. Negli auguri di Natale fatti alla curia romana papa Francesco ha parlato di almeno quindici malattie dell’anima che non permettono più di vedere nella nostra umanità il segno che interpretato dalla parola di Dio ci permette di sperimentare la salvezza. l’elenco del Papa inizia con la malattia del sentirsi immortali e indispensabili, poi prosegue con diverse forme di attivismo che induriscono il cuore e lo spirito e si conclude con ricerca di profitto mondano ed esibizionismo. Fra quelle centrali, alcune ‘malattie’ mi pare possano essere particolarmente interessanti per noi. Il papa parla di ‘Alzheimer spirituale’: cioè del dimenticare la storia della salvezza personale, il proprio incontro con il Signore, l’amore che si è sperimentato. Si vive come se il vangelo non ci fosse, fissati sulle proprie vedute, spesso falsate, frutto del pregiudizio e del sospetto. Oppure la malattia della schizofrenia esistenziale. E’ la malattia di coloro che vivono una doppia vita, frutto dell’ipocrisia tipica del mediocre e del progressivo vuoto spirituale che ricchezza e importanza non possono colmare. Chi ne è colpito mette da parte tutto ciò che insegna agli altri magari anche severamente e inizia a vivere una vita nascosta, quasi sempre dissoluta. Infine la malattia delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi. E’ una malattia grave, che inizia semplicemente, magari solo per fare due chiacchiere e si impadronisce della persona facendola diventare “seminatrice di zizzania” (come satana), all’interno della comunità. È la malattia delle persone vigliacche che non avendo il coraggio di parlare direttamente parlano dietro le spalle. San Paolo ci ammonisce: «Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri» (Fil 2,14-18). Sono solo tre ‘malattie’ fra le quindici citate dal Papa quelle che, secondo me, urgono di un cammino di conversione. Ricordare la nostra storia di fede, vivere con onestà e curare le relazioni con franchezza e verità ci permette di essere segno come Gesù, una umanità fragile che racconta Dio.

Commento di don Domenico Malmusi

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Dal Vangelo secondo Giovanni 1,1-18.
In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta.
Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.
A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome,
i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli rende testimonianza e grida: «Ecco l’uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia.
Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.

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Natale giorno

Umanità di Dio

Il prologo del vangelo di Giovanni, è un testo molto teologico, cioè pieno di concetti importanti che riguardano Dio e anche molto poetico, cioè capace di suscitare emozione, di smuovere qualcosa dentro. Certamente il linguaggio teologico e quello poetico sono difficili per noi, un po’ fuori dalla normalità del nostro parlare. È vero però che abbiamo ascoltato già tante volte questo testo e dovrebbe essere quindi abbastanza usuale entrare in esso.

L’inizio richiama le prime parole della Genesi: “In principiò Dio creò…” e sappiamo che Dio crea con la sua Parola. Una parola che è sapienza, che è novità, che è forza capace di suscitare ciò che non c’era. È parola di verità che rende vero ciò che dice. E di tutte queste parole contenute nel prologo quella più sconvolgente è che “Il Verbo si fece carne”, cioè la realtà eterna ed immutabile di Dio, la sua potenza creatrice diventa cretura, fragile, mortale. Non siamo più obbligati a quella sorta di schizofrenia tra Dio e il mondo, tra la vita spirituale e la vita materiale, tra il cielo e la nostra vicenda umana, perchè Dio è una vicenda umana, il cielo ha toccato la terra, la vita spirtuale è la vita del corpo.

Dio non si è comunicato a noi per mezzo di dottrine sublimi che solo gli scienziati potevano capire, si è comunicato con una vita di uomo. Un corpo umano diventa il luogo della rivelazione di Dio. Un corpo lo possono leggere tutti, è un libro che chiunque è in grado di capire. Con le parole possiamo ingannare, mentire. Il corpo raramente sa mentire, se lo guardi attentamente, racconta. La postura, la qualità della pelle, le espressioni fugaci, dicono qualcosa di noi, raccontano.

Così è per la carne di Gesù, il suo vissuto, il suo corpo sono diventati racconto, per questa incredibile unione tra corpo mortale e Verbo di Dio. I suoi piedi che camminavano senza sosta spinti dalla passione per tutti e per tutto ci hanno raccontato la passione di Dio. La sua voce e le sue parole che dischiudeva i sogni degli emarginati e e rivelava l’ipocrisia e la meschinità dei benpensanti raccontava Dio. Le sue mani, che accarezzavano i bambini, sollevavano i paralitici, spalmavano di fango gli occhi dei ciechi e li aprivano, spezzavano il pane raccontavano Dio. La sua sensibilità che sentiva il timido gesto della donna che gli aveva toccato il mantello, o della donna che lo stava profumando; i banchetti con pubblicani e peccatori, che lo accoglievano in festa, la sua fedeltà fino alla croce raccontavano Dio. La Parola di Dio è diventata corpo, e così anche le nostre parole sono chiamate a diventare corpo, concretezza, vissuto. Le nostre mani, i nostri piedi, le nostre voci, la nostra sensibilità, il vissuto quotidiano, le relazioni che viviamo hanno la forza di raccontare Dio?

Pochi giorni fa, nel messaggio di auguri di Natale alla curia romana papa Francesco ha parlato di quindici malattie dell’anima che non permettono più alla nostra umanità di raccontare Dio, di essere segno concreto che, illuminato dalla parola del vangelo diventa racconto, diventa verità di Dio sulla terra.L’elenco stilato dal Papa inizia con la malattia del sentirsi immortali e indispensabili, parla di diverse forme di attivismo che induriscono il cuore e lo spirito e si conclude con ricerca di profitto mondano ed esibizionismo. Il testo del Papa è rivolto a porporati e preti di curia, ma credo che alcuni passaggi siano molto significativi anche per noi.

Il papa parla di ‘Alzheimer spirituale’: cioè dell’incapacità di ricordare la propria storia di salvezza, il proprio incontro con il Signore, l’amore che si è sperimentato. Si vive come se il vangelo non ci fosse, fissati sulle proprie vedute che spesso sono frutto di pregiudizio e di sospetto, quindi falsate. Oppure la malattia della rivalità, della vanagloria, il ricercare un pezzetto di potere esclusivo. Ancora la malattia della schizofrenia esistenziale. E’ la malattia di coloro che vivono una doppia vita, frutto di ipocrisia e del vuoto spirituale che ricchezza e importanza non possono colmare; questi mettono da parte tutto ciò che insegnano agli altri, magari anche severamente, e iniziano a vivere una vita nascosta, quasi sempre dissoluta. Infine la malattia delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi. Magari si solo per fare due chiacchiere poi si impadronisce della persona facendola diventare “seminatrice di zizzania”, all’interno della comunità. È la malattia delle persone vigliacche che non avendo il coraggio di parlare direttamente parlano dietro le spalle. San Paolo ci ammonisce: «Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri» Sono solo alcune ‘malattie’ fra le quindici citate dal Papa quelle che, secondo me, urgono di un cammino di conversione. Ricordare la nostra storia di fede, vivere con onestà senza andare a caccia di potere, e curare le relazioni con franchezza e verità ci permette di vivere una umanita come quella di Gesù, una umanità fragile capace di raccontare Dio.

Commento di don Domenico Malmusi

10 novembre 2014

Vangelo E Commento Domenica 9 Novembre – XXXII Tempo Ordinario

Filed under: Vangelo — Insieme @ 20:33
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El Greco - Cristo Scaccia I Mercanti Dal Tempio

El Greco – Cristo Scaccia I Mercanti Dal Tempio

Dal Vangelo secondo Giovanni 2,13-22.
Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.
Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco.
Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi,
e ai venditori di colombe disse: «Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato».
I discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divora.
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?».
Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».
Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?».
Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.

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XXXII Tempo ordinario, dedicazione della basilica lateranense.

Nuovo tempio

Il racconto evangelico ci dice che in occasione della festa di Pasqua, Gesù entra nel tempio e vede che lo spazio chiamato “atrio delle genti” è stato trasformato in luogo di commercio, di vendita degli animali per i sacrifici. Ci sono anche i cambiavalute che hanno il compito scambiare le monete per consentire ai pellegrini di pagare il tributo al tempio, che può essere pagato solo con moneta ebraica. Quel luogo che Dio aveva voluto come “casa di preghiera per tutte le genti”, secondo quanto affermato dal profeta Isaia, era diventato un luogo di mercato!

Quello che indigna Gesù però non è la confusione, le chiacchiere, come qualcuno potrebbe pensare, il problema è molto più profondo ed è duplice: un aspetto importante, seppur secondario, riguarda il fatto che il mercato occupava l’unico spazio del tempio concesso agli stranieri, le parti più interne erano riservate agli israeliti, se uno straniero avesse voluto avvicinarsi, incontrare il Dio d’Israele, pregare… poteva farlo solo in quella zona. Ma la zona era stata requisita per il mercato, ingombra di animali e banchetti non permetteva più la preghiera dei proseliti. Non c’era più spazio per i nuovi, i convertiti, i simpatizzanti, soltato i puri sono ammessi. Gesù ribadisce che il tempio è per tutti, ebrei e stranieri, buoni e cattivi, sani e malati, sposati e separati: tutti, senza distinzione.

Ma l’aspetto principale è che Gesù vuole dire basta con una religione con cui si vuole “comprare” il favore di Dio, non solo attraverso offerte in denaro e sacrifici di animali, come nel suo tempo, ma anche attraverso prestazioni di qualsiasi altro genere: voti, penitenze, osservanze, novene, corone… come facciamo noi oggi. Anche oggi si commercia: Quanto costa una messa? Quante lezioni di catechismo devo fare per ricevere la cresima? Che penitenza devo fare per avere il perdono? Tutto ha un prezzo, in denaro o in opere e se il tempio è un mercato, si monetizzano anche le prestazioni religiose con un loro tariffario. Ma una religione, in cui le cose di Dio si comprano, è un oltraggio a Dio e un’offesa alla dignità dell’uomo. Non sto condannando le pratiche religiose: il cristiano o è praticante o non è cristiano. Ma è molto diverso partecipare alla messa per obbligo o perchè non posso fare a meno di nutrirmi.

La religione del mercato riduce l’amore di Dio in un favore da comprare e trasforma l’agire dell’uomo in un tributo da versare a Dio per aver in cambio la sua benevolenza. E’ un rapporto padrone-schiavo, che, per quanto gravoso, è in fondo rassicurante, come la schiavitù in Egitto. Gesù vuole proprio sostituire a questa religione mercantile un modo nuovo, libero e liberante, di entrare in relazione con Dio.

E lo fa attraverso un gesto profetico. Un gesto clamoroso, come quello compiuto da Gesù nel vangelo, suscita sempre curiosità, fa nascere interrogativi, mette in moto pettegolezzi, storie. La domanda dei Giudei: “Quale segno ci mostri per compiere queste cose?” non è del tutto fuori luogo. Perchè un gesto sensazionale non è necessariamente profetico, la profezia ha delle caratteristiche ben precise: nasce da una relazione profonda con Dio, si nutre della sua Parola, caratterizza una vita. Gesù per tutta la sua vita ha cercato la relazione con il Padre, i vangeli lo mostrano spesso in preghiera, in disparte, in luoghi solitari; mostrano la sua familiartà con la Scrittura, attraverso le citazioni che troviamo nei racconti, nelle spiegazioni che fa, nelle applicazioni alla sua vita; non ha mai fatto un sacrificio nè ha voluto che lo facessereo i suoi discepoli, pur frequentando regolarmente il tempio per la preghiera. Insomma Gesù aveva una vita trasparente, salda, coerente con ciò che predicava, era chiaramente un profeta, non ci sarebbe stato bisogno di chiedere una conferma di questa autorità profetica. Ma siccome non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, o cieco di chi non vuol vedere, ecco che occorre una prova, una conferma.

Ma la risposta di Gesù appare ancora più oscura ai suoi ascoltatori. Quando parla di distruggere il tempio e di poterlo risuscitare intende il suo corpo, la sua persona e, dobbiamo ammettere, che è un linguaggio duro, veramente difficile da comprendere soprattutto per chi non si vuole discostare dalle sue abitudini e tradizioni. Per noi però, abituati ad ascoltare il vangelo dovrebbe essere chiaro: con Gesù inizia il tempo del culto in spirito e verità, come dice alla samaritana, quindi non un culto fatto di precetti, di osservanze, di sacrifici, ma un culto che rispecchi la coerenza della vita, che sia autentico, che parli all’umanità. Il culto non è più nel tempio di Gerusalemme, ma in quel tempio che è il corpo di Gesù, la sua persona, la sua umanità. Il luogo dove tutti gli uomini possono incontrare Dio è Gesù, un uomo, una carne umana che è anche la Parola di Dio. Dio è presente ovunque, ma c’è un luogo in cui egli abita in modo unico e speciale: non più il tempio di Gerusalemme, ma l’uomo Gesù. Vivendo come Gesù si dà culto a Dio.

Commento di don Domenico Malmusi

2 novembre 2014

Vangelo E Commento Domenica 2 Novembre – Commemorazione dei defunti

Piero della Francesca - Resurrezione Di Cristo, 1450-1463 -  Affresco - Museo Civico di Sansepolcro

Piero della Francesca – Resurrezione Di Cristo, 1450-1463 –
Affresco – Museo Civico di Sansepolcro

Dal Vangelo secondo Giovanni 6,37-40.
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò,
perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

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Commemorazione dei defunti

Una vita da risorti

I pochi versetti di vangelo che abbiamo ascoltato sono tratti dal capitolo 6 del racconto di Giovanni, un capitolo tutto incentrato sul pane di vita. Inizia con il racconto del miracolo dei pani, dopo il quale Gesù cerca di sfuggire alla folla che lo acclama rifugiandosi sul monte e poi attraversando il lago di notte. Il giorno dopo però la folla, forse interessata alla materialità del pane a buon prezzo, lo raggiunge dall’altra parte del lago e qui Gesù inizia una lunga spiegazione sul suo essere pane della vita al centro della quale spiccano i versetti sulla volontà del Padre.

La volontà del padre è che Gesù non perda nulla di ciò che gli ha dato e lui fa sua questa volontà: “Chi viene a me non lo caccerò fuori” dichiara. I discorso si fa personale, individualmente responsabile: colui che viene a me, attraverso qualsiasi itinerario dell’esistenza, può avere una certezza: io non lo caccerò fuori. Sono parole forti che mostrano il vigore con cui Dio desidera abbracciare tutto ciò che l’uomo è. Dio vuole tenacemente far sperimentare all’uomo la salvezza, vuole che si accosti al banchetto di condivisione della Vita, alla relazione piena con lui. È la realizzazione del desiderio più profondo dell’uomo espresso bene dalle parole di Giobbe nella prima lettura: “Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro”. Gesù è venuto a mostrare il volto di un Dio la cui volontà risponde al desiderio dell’uomo.

Qualcuno la troverà un’idea un po’ strana, spesso si hanno visioni diverse della volontà di Dio. Nel caso migliore si pensa alla volontà di Dio come a qualcosa a cui obbedire ciecamente, nei casi peggiori diventa l’appiglio per giustificare le peggiori atrocità dell’uomo. Tutte le diverse guerre sante sono state spacciate per volontà di Dio.

Ma anche restando in un ambito di interpretazione più vicino al nostro, non possiamo pensare alla volontà di Dio come qualcosa di ineluttabile a cui adeguarsi. La volntà di Dio è un evento dinamico, il frutto di un incontro tra le esigenze del vangelo e l’unicità di una persona. Questo incontro di desideri e di esigenze è l’evento spirituale che realizza la volontà di Dio, è un’offerta che libera la nostra umanità, una proposta di libertà. Solo chi è libero può veramente obbedire e offrire la propria libertà.

Volontà di Dio è dunque che ciascuno di noi possa incontrare Gesù e mettere la fede in lui, cioè aderire, stare attaccato a lui con lo scopo finale di avere la vita eterna. Anche su questo mi preme fare una precisazione: quando si parla di vita eterna nelle Scritture non si intende semplicemente parlare di durata. Fra l’altro per noi è inimmaginabile l’eternità, un tempo senza fine, perchè tutte le nostre esperienze sono scandite dal tempo, racchiuse in un arco ben definito. Vita eterna è indubbiamente un termine legato alla quantità, è il tempo di Dio, un tempo non scandito da un prima e un dopo ma un eterno presente, però, per noi, è più facile comprendere l’aspetto della qualità, perchè più vicino alle esperienze di vita che abbiamo noi. Vita eterna è allora vita con Dio, in quel tempo che è il suo, ma soprattutto è una vita piena, significativa, una vita concreta che abbraccia tutto l’uomo fatto di carne e di spirito. Nelle fede cristiana non si parla di vita in un luogo di spiriti, ma di resurrezione cioè di una vittoria sulla morte che abbraccia l’uomo nella sua interezza, corpo e spirito.

Oggi possiamo dunque già iniziare una vita da risorti, quando sappiamo affidarci a Dio, ma non semplicemente guardando verso il cielo e aspettando una soluzione miracolosa ai nostri problemi, l’affidamento al Signore passa concretamente attraverso affidamento all’altro. Perchè noi sperimentiamo la vita ogni volta che sappiamo mettere fiducia nell’altro, lo accogliamo come un dono e, a nostra volta sappiamo donarci. E questa è la volontà di Dio, una volontà di incontro, di nutrimento reciproco, di affidamento. Tutte esperienze che concretizzano l’amore, e l’amore è la forza della risurrezione.

Commento di don Domenico Malmusi

22 giugno 2014

Vangelo E Commento Domenica 22 Giugno – Corpus Domini XII Tempo Ordinario

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Jacopo Tintoretto - L'Ultima Cena, olio su tela, 1592-1594, Basilica di San Giorgio Maggiore, Venezia

Jacopo Tintoretto – L’Ultima Cena, olio su tela, 1592-1594, Basilica di San Giorgio Maggiore, Venezia

Dal Vangelo secondo Giovanni 6,51-58.
In quel tempo, Gesù disse alla folla dei Giudei: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.
Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me.
Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
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Corpus Domini XII Tempo ordinario

Mistero visibile

La festa del Corpus Domini nasce nel XIII secolo per ridare vigore al significato di presenza reale di Cristo nel pane eucaristico, che si iniziava a mettere in dubbio. Il grande rischio di questa festa però è stato quello di separare il pane consacrato dalla celebrazione eucaristica, di trasformare il pane in se stesso in un oggetto di culto e di adorazione invece che in cibo da condividere. Così facendo si favorisce il culto privato, la preghiera silenziosa davanti al tabernacolo, piuttosto che la celebrazione comune della fede con condivisione del cibo che è poi condivisione della vita, e questo è certamente un rischio, una deviazione rispetto al comando di Gesù che è ‘prendete e mangiate’.

In realtà, nella chiesa, qualsiasi cosa può essere a rischio di deviazione se la si stacca dal vangelo che è il contenuto della fede e il senso della nostra fede. Il vangelo che abbiamo ascoltato è dunque fondamentale per comprendere e per vivere il senso di questa festa.

Gesù, nei versetti precedenti si era definito ‘pane della vita’ e ora usa il termine ‘pane vivo’: più che cercare di capire la differenza fra i due termini mi pare importante notare l’unico e costante riferimento al pane, alimento fondamentale per moltissimi secoli soprattutto per gli starti più umili della popolazione. È un alimento semplice e umile, simbolo del necessario per vivere. Ecco cosa vuole dire Gesù, la sua realtà è umile, semplice, necessaria, una realtà che l’uomo però non può darsi da solo, può solo riceverla, e riceverla da Dio. Il movimento dell’uomo è allora quello della gratitudine, cioè di fare eucaristia, per questo dono di vita fatto agli uomini di cui la manna era solamente un simbolo. Ora la vita di Dio si è fatta visibile, si può toccare e ascoltare nella concretezza di una vita umana: la vita di Gesù. Il pane, di cui si parla, non è primariamente il pane eucaristico, ma la vita stessa di Gesù che diventa vita per il mondo, una vita pienamente umana, concreta, visibile.

A questo punto però c’è un passaggio che risulta fondamentale: Gesù parla di carne, la sua carne. Sappiamo che anche il termine carne richiama soprattutto e prima di tutto la concretezza della vita umana di Gesù, è questa vita che occorre mangiare, anzi masticare secondo il significato primario del verbo usato dall’evangelista. Masticare è la prima azione necessaria per digerire bene. Questa prima azione, a differenza delle fasi successive, è un’opera volontaria, richiede la nostra scelta, l’uso della nostra forza. Una volta ingerito il cibo entra in un processo di digestione che non dipende più dalla nostra volontà, certamente però questa prima fase permette una assimilazione più o meno lenta, più o meno efficace … il cibo che abbiamo mangiato diventa parte di noi: “colui che mangia me, vivrà per me” dice Gesù. Masticare dunque indica il fatto di voler assimilare tutta la vita di Gesù, dalla nascita fino alla croce, la vita umana di Gesù. Certamente in vista della divinizzazione, ma attraverso quella vita fragile e mortale assunta dal Verbo della vita nascendo sulla terra.

Come è possibile mangiare la sua carne, si domandano i giudei e noi con loro. Come è possibile che quel corpo diventi cibo per noi. Qui entra in gioco la fede, l’accoglienza del mistero, il significato di sacramento. È certamente la fede che ci permette di riconoscere nel pane eucaristico la carne di Gesù, è la fede che permette di dire che Gesù è il pane che non proviene dalla terra ma discende dal cielo e che è destinato a essere mangiato per dare vita agli uomini, e proprio in questa affermazione di fede si manifesta il mistero della comunicazione di Dio e del misterioso scambio che ci ha redenti: per dare la vita occorre perdere la vita. Vale anche per me, oggi: la vita che perdo diventa vita per l’altro.

Per donare agli uomini la vita di Dio, il Figlio di Dio entra nella vita umana, diviene partecipe della carne e del sangue e invita l’uomo allo scambio, alla relazione, alla partecipazione, alla comunione. Invita l’uomo a mangiare la sua carne e il suo sangue, cioè lo invita e lo rende capace di partecipare alla sua vita. Una partecipazione alla sua vita che ha un effetto visibile: ora non è più questione di fede in un mistero, ma qualcosa di molto concreto, la vita di Gesù diventa nostra vita nelle scelte quotidiane, nelle relazioni che viviamo, nel modo di vedere e considerare le persone. La Vita si è fatta visibile, dice Giovanni nella sua prima lettera, cioè il mistero di Dio si è reso visibile nell’esistenza umana di Gesù, così il mistero dell’Eucaristia diviene visibile nell’esistenza di ciascun commensale, di ciascuno di noi, che ci nutriamo di lui per diventare come lui.

Commento di don Domenico Malmusi

8 giugno 2014

Vangelo E Commento Domenica 8 Giugno – Pentecoste

Albrecht Dürer - Adorzione Trinità

Albrecht Dürer – Adorzione Trinità

Dal Vangelo secondo Giovanni 20,19-23.
La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!».
Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi».
Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo;
a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi».

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Pentecoste

Rimettere i peccati

Il dono dello Spirito avviene con un fragore di tuono, con il fuoco che illumina, con le porte che si spalancano, gli apostoli che parlano e tutti che capiscono … è un evento straordinario, come quando Dio consegna la legge sul Sinai accompagnando l’evento con lampi, tuoni, terremoto. Questo il racconto di Luca negli Atti. Secondo Giovanni invece il dono è semplicemente un soffio dato da Gesù, qualcosa di molto più intimo, sobrio, che avviene nel chiuso di una stanza in cui i discepoli erano rintanati per la paura.

Qual è la descrizione vera? Quale evento ha permesso l’esperienza dello Spirito per i discepoli? Ambedue, credo. Così diverse, quasi opposte, eppure così vere entrambe. Certamente l’effetto dello Spirito è dirompente, apre bocche e orecchie per comunicare, per comprendere il vangelo, ma questo succede solo se il dono è accolto, lasciato sedimentare nell’intimità della relazione con il Signore perché sia approfondito e decifrato. È vero che il dono dello Spirito apre le porte, però solo quando il è diventato davvero dono di pace e riconciliazione.

Soffermiamoci allora sul vangelo, perché riguarda il primo aspetto del dono dello Spirito: Gesù si presenta dicendo ‘Pace a voi’, certamente la pace è un dono ma, come tutti i doni di Dio, anche una responsabilità. Ricercare la pace interiore, cioè riconciliarsi con se stessi, con il proprio passato, con i propri fallimenti, con le ferite interiori che la vita procura inevitabilmente a ciascuno è il cammino prioritario per poter essere annunciatori credibili. Gesù manda i discepoli come il Padre ha inviato lui, e occorre una grande pace interiore per poter portare fino alla fine l’amore così come lo ha fatto Gesù. Il suo mostrare le mani e i piedi, segno del dono totale della sua vita, mostra anche il cammino di pacificazione interiore che gli ha permesso di esser fedele fino in fondo eliminando amarezze e risentimenti.

Senza questa cammino interiore non si può accogliere il compito di perdonare i peccati. Anche in questo caso si tratta di una grande responsabilità. Ancora troppe volte si confonde il dono di Dio con il potere che gli uomini vogliono assumersi ed esercitare. Il perdono non è un esercizio di potere ma un compito da vivere. Perdonare significa donare attraverso le sofferenze e il male subitoSignifica fare anche del male ricevuto l’occasione di un dono. A volte, per smorzare il nostro desiderio di vendetta, tendiamo a smorzare la responsabilità di chi ha commesso il male: diciamo che non ha fatto apposta, che non capiva, che non voleva … ma perdonare non significa scusare, anzi significa accogliere ciò che non è scusabile, ciò che è davvero male e che resta tale così come restano le cicatrici del male subito. Il male è irreversibile e il perdono lo accoglie come evento passato facendo prevalere un presente di grazia che prevale sul desiderio di rivalsa o di ripicca. Questo crea le premesse per una nuova relazione.

Un altro pensiero sbagliato sul perdono è collegato all’oblio, alla dimenticanza. Siccome dimentico, non c’è più il desiderio di vendetta. In realtà questo è un meccanismo di difesa del nostro cervello per sopravvivere davanti alla vastità di certi abusi ricevuti, ma le scienze umane insegnano che i pazienti che non ricordano tendono a ripetere (sappiamo che le persone che hanno subito gravi violenze, senza la possibilità di rielaborarle, tendono ad essere violente a loro volta). Perdonare allora richiede un lavoro della memoria e poi di rielaborazione: il male esiste non per mia responsabilità, spesso lo si subisce in modo assolutamente ingiusto, magari da persone che riteniamo amabili, o che dovrebbero difenderci (pensiamo a tutti i casi di violenza domestica…) però, per quanto non siamo responsabili del torto subito siamo comunque responsabili di ciò che facciamo del male che abbiamo ricevuto.

Ricordare il male e farlo sfociare nel perdono è un lavoro lungo e faticoso però è l’unico modo per liberare la persona umiliata da quella sorta di obbligo interiore che porta a ripetere e riversare su altri il male che egli a suo tempo ha subito. Così non si resta in balia del risentimento, prigionieri del proprio passato. Perdonare è un atto che ha la capacità di guarire non solo chi agisce nel male, ma prima ancora che lo subisce: dice Hannah Arendt, . “il perdono è l’unica reazione che non si limita a reagire, ma che agisce nuovamente e inaspettatamente, non condizionato da un atto che l’ha provocato, e che quindi libera dalle sue conseguenze sia colui che perdona sia colui che è perdonato” , cioè per ogni azione c’è sempre una reazione che è uguale e contraria, il perdono è semplicemente contraria, qualcosa di radicalmente nuovo che permette una vita nuova.

Commento di don Domenico Malmusi

26 Maggio 2014

Vangelo E Comento Domenica 25 Maggio – VI di Pasqua

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Andrej Rublëv - Icona Della Trinità, Tempera su legno Galleria Tret'jakov, Mosca

Andrej Rublëv – Icona Della Trinità, Tempera su legno
Galleria Tret’jakov, Mosca

Dal Vangelo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti.
Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre,
lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi.
Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi.
Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete.
In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi.
Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

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Pasqua VI

Lo Spirito in noi

Leggendo il vangelo capita spesso di cercare di comprenderlo in modo un po’ spiritualistico, disincarnato. Soprattutto se nel testo si parla di Spirito, di relazione con Gesù, ci appaiono alla mente delle immagini misticheggianti di personaggi in estasi. In realtà questo è uno degli oltraggi peggiori che possiamo fare al vangelo, perché il racconto evangelico è la testimonianza di Gesù uomo, è la narrazione dell’incarnazione di Dio cioè il fatto che Dio sceglie la via dell’umanità per rivelare i suoi misteri. È attraverso l’esperienza umana che si conosce e si ama Dio. Proviamo allora a pensare quali esperienze umane possono aiutarci a comprendere questo testo che parla di osservare i comandamenti, di conservare lo Spirito e di essere nel Padre.

Il primo punto su cui vorrei soffermarmi riguarda proprio questo aspetti di essere in Gesù che è nel Padre, e di avere lo Spirito in noi. Essere in qualcuno o avere qualcuno in sé non è una cosa magica o di tipo spiritualistico: dentro di noi vivono le persone che amiamo. Non occorre un grande sforzo di memoria per richiamarle alla mente, non serve una concentrazione particolare. Ogni volta che la mente è sgombra dai pensieri e dalle preoccupazioni del lavoro, degli impegni, degli appuntamenti ecco che si affacciano i nostri cari, ci ripetono parole, gesti, comunicazioni più o meno importanti.

È l’amore che permette di ospitare nel cuore le persone. Semplicemente l’amore. Un amore che è fatto di cose molto tangibili, reali: è fatto di presenza, di attenzione, di ascolto, di tempo dedicato all’altro. Soprattutto ascolto, perché per ascoltare io devo ‘decentrarmi’ cioè spostare il centro dei miei pensieri, dei miei interessi da me ad un altro. Certamente c’è un rischio nell’applicare questa esperienza di amore a Dio che è invisibile, diverso, altro: il rischio di amare semplicemente una mia immagine, un mio pensiero su Dio e non la realtà. Farsi una propria immagine di Dio è un grave peccato: quando la bibbia dice di non fare immagini di Dio non sta proibendo di costruire delle statue ma vieta di farsi immagini interiori di Dio, immagini diverse da ciò che presenta la Scrittura, che rivela Gesù. Spesso noi abbiamo immagini di Dio diverse: un Dio giudice, cattivo, pronto a condannare. Gesù narra un Dio diverso e per questo l’esperienza dell’ascolto della sua Parola è un atto di amore ancora più importante di quanto lo sia nella vicenda dell’amore umano. Un uomo, una donna, un figlio è fatto di un corpo tangibile, un corpo che con la sua sola presenza mi lancia dei messaggi. Gesù, unico rivelatore del Padre, è assente. Ha avuto un corpo di uomo, ma ora non si vede, è presente in modo misterioso e dunque è possibile amarlo solo nell’esperienza dell’ascolto profondo della sua Parola, dei suoi comandi. Amare Gesù significa molto semplicemente osservare i suoi comandi. Osservare significa guardare con attenzione, indugiare con lo sguardo, con la voglia di capire, di interpretare. I comandi del Signore non sono parole da eseguire, ma da osservare e scrutare. Questo è il senso vero dell’obbedienza: ascoltare con attenzione, profondamente, quindi custodirli, cioè ricordarli, farli propri, viverli.  L’amore autentico per il Signore, dunque, si lascia plasmare dalla parola che il Signore ci rivolge, è realizzazione della parola di Dio, è un fare ciò che lui comanda e vuole. Quando sappiamo sostituire la volontà del Signore alla nostra, allora possiamo dire di amare il Signore; quando viviamo in noi stessi “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5), allora amiamo Gesù.

È un lavoro interiore che ci riporta al tema iniziale, quello di far vivere l’altro in se stessi.

L’interiorità è un luogo di dialogo, non di monologo, un luogo di creatività. Lo Spirito che ci viene donato, che vive in noi, ci conduce ad una comprensione profonda, una assimilazione delle parole e dell’insegnamento di Gesù. I monaci antichi dicevano che la parola va ‘ruminata’, è questa azione che lo Spirito ci permette di compiere. Questa è la vita interiore, una dimensione essenziale della vita cristiana. Costruire e custodire uno spazio interiore è fondamentale per la nostra vita di fede. È in questo spazio interiore che possiamo collegare l’interno e l’esterno, le emozioni e i sentimenti che sentiamo in noi stessi con gli eventi che viviamo, è qui che si esercita la critica, l’autoanalisi.

Stiamo ancora parlando di esperienze profondamente umane che diventano vita spirituale: guardarsi dentro, ascoltare il proprio corpo, saper dare un nome alle proprie emozioni, giudicare le proprie azioni, mettersi in crisi, ricercare il silenzio e la solitudine sono movimenti umani che permettono la vita spirituale, che ci rendono capaci di amare veramente. Di amare Dio nell’ascolto dei suoi comandi, di amare Gesù presente nei fratelli e nella comunità.

Commento di don Domenico Malmusi

11 Maggio 2014

Vangelo E Commento Domenica 11 Maggio – IV Di Pasqua

Filed under: Vangelo — Insieme @ 19:55
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Gesù Quale Buon Pastore - Antiche Catacombe Cristiane Di Domitilla

Gesù Quale Buon Pastore – Antiche Catacombe Cristiane Di Domitilla

Dal Vangelo secondo Giovanni 10,1-10.

In quel tempo, Gesù disse; «In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante.
Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore.
Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori.
E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce.
Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore.
Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati.
Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo.
Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

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Pasqua IV

Buon pastore

Quella del pastore è un’immagine classica della bibbia e di buona parte del mondo antico. Il re, spesso, è definito pastore, così come i capi civili o religiosi del popolo. È un’immagine immediata, facile da comprendere, utilizzata dunque anche da Gesù che parla sempre con un linguaggio figurato di facile comprensione. Nel testo ascoltato però si dice che “essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro”. Vuole dire che la possibilità di non capire il vangelo è molto concreta, è effettiva anche per noi, anche oggi. Solitamente, quando non si capisce, ci possono essere tre motivi diversi: il primo è che uno sia limitato, poco intelligente e non afferri pienamente il senso delle parole; qui non c’è nulla da fare. Il secondo, più frequente, è che uno non capisca perché non ascolta: spesso mentre qualcuno parla si è distratti, si pensa alle proprie cose, si chiacchiera con il vicino … quindi si capiscono alcune parole qua e là ma non sufficienti per comprendere tutto il discorso. Il terzo motivo è che uno non capisce perché non vuole capire: quando le cose che vengono dette sono difficili da vivere, vanno contro quelli che sono i miei desideri di quel momento, non mi piacciono … allora fingo di non aver capito, e di solito di finge così bene da convincersi di non aver capito.

Per non capire questo brano basta pensare che sia un testo che riguarda soltanto i preti: in effetti sono i preti che vengono definiti pastori, c’è un senso in questo. Ma se si ascolta bene si coglie che Gesù dice di essere lui solo il Pastore, tutti gli altri, preti compresi, sono pecore, e quindi pensare che il testo sia rivolto solo ai preti è un modo per non ascoltare il vangelo, per non voler capire che sta parlando a ciascuno di noi.

Quindi solo Gesù è Pastore, e per definire questa sua qualità Gesù usa due opposizioni: pastore e ladro, pastore ed estraneo. Gesù è venuto perché abbiano la vita in abbondanza, il ladro ruba, sacrifica e abbatte; Gesù conosce le pecore una ad una e le pecore conoscono la sua voce e lo seguono, cioè ha una relazione intima, personale con ciascuna, una relazione di fiducia. Una relazione che vive mettendosi davanti, , come apripista, non si mette dietro per sorvegliare o bastonare, è colui che guida, che sta davanti per farsi seguire, per rendere sicura la strada, per rassicurare sulla possibilità di farcela.

Cosa dice a noi questo fatto, a noi che spesso ricopriamo ruoli di tipo ‘pastorale’, cioè noi adulti che come genitori, insegnanti, educatori o semplicemente come esempio, abbiamo responsabilità di nutrire, di far crescere, di insegnare, di indicare la via?

Prima di tutto ci dice che comunque siamo pecore, quelle descritte nel testo, cioè pecore di quel pastore, che riconoscono e ascoltano la sua voce, pecore che sanno di avere una relazione personale, di affetto, di intimità. Qui si apre tutto il tema della preghiera, dell’ascolto della parola di Dio, della capacità di guardarsi dentro con onestà.

E poi ci dice che per entrare nel recinto delle pecore l’unico accesso che abilita è quella porta che è Gesù. Passare attraverso di lui significa vivere il suo stile, uno stile fatto di intimità, di relazione autentica, di affetto, di attenzione di ascolto dell’altro, di conoscenza profonda. È il calore della relazione che ci fa sperimentare la vicinanza con Gesù, con il vangelo. E poi la libertà: Gesù ha uno stile liberante, accompagna verso spazi aperti, luoghi con ampi orizzonti, rendere liberi, capaci di scegliere chi o che cosa seguire è un ruolo importantissimo.

Chi non entra per la porta è un ladro e un brigante, e non è necessario uccidere fisicamente per rubare la vita alle persone: usare le persone per i propri scopi, intromettersi nelle relazioni, nelle confidenze; togliere libertà, pretendere di controllare, impedire la crescita e l’autonomia sono tutti modi che traducono nel concreto della nostra vita ciò che il vangelo definisce ‘rubare, uccidere e abbattere’. Anche da genitori, magari animati da buone intenzioni, capita di rubare la vita ai figli, quando scegliamo più in base al nostro interesse che al loro vero bene, quando li usiamo per raggiungere scopi e obiettivi che non abbiamo realizzato da giovani, quando non gli permettiamo di vivere l’autonomia. Quanti sono i padri che comprano ai figli i giochi che loro avrebbero voluto per poi usarli con gli amici, o le madri che saccheggiano gli armadi delle figlie per usurpare un po’ della loro giovinezza!!! C’è soluzione a questo? Il vangelo indica una via che è l’intimità con Gesù, per essere istruiti da lui, per essere pecore conosciute e amate capaci di far crescere e accompagnare altre pecore all’incontro con lui. E questo avviene nella comunione. Nutrirsi di lui, accoglierlo nel cuore e nella vita significa riconoscerlo come il grande pastore che guida verso pascoli abbondanti, verso luoghi di libertà, significa diventare come lui, affettuosi, liberi e capaci di accompagnare alla libertà

Commento di don Domenico Malmusi

27 aprile 2014

Vangelo E Commenti Domenica 27 Aprile – II Di Pasqua

Filed under: Vangelo — Insieme @ 15:53
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Hendrick Brugghen - Incredulità Di San Tommaso

Hendrick Brugghen – Incredulità Di San Tommaso

Dal Vangelo secondo Giovanni 20,19-31.
La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!».
Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi».
Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo;
a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù.
Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!».
Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!».
Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!».
Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro.
Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

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Pasqua II

Tommaso

Il racconto evangelico inizia nel giorno stesso della Resurrezione, è quello della nuova creazione, il primo della settimana. Il luogo della scena non viene precisato, l’unica indicazione importante è che era chiuso. L’anuncio che Gesù è risuscitato non toglie i discepoli dalla paura, non permette di aprirsi. Si comprende bene che non basta sapere che Gesù è risuscitato, occorre sperimentarlo presente.

Ed ecco che Gesù si presenta ponendosi al centro della comunità. È una indicazione teologica, molto impotrante: la comunità cristiana è centrata unicamente in Gesù, è lui l’unico punto di riferimento e il fattore di unità.

Gesù comunica la pace, ma perché questa comunicazione di pace diventi effettiva deve essere accompagnata da gesti che la concretizzino, è questo il mandato alla comunità dei discepoli: prolungare la missione di Gesù di essere manifestazione visibile dell’amore del Padre. Quello che Gesù dà non è un potere di assolvere attraverso una formula ma la sua stessa capacità di amare, la sua misericordia. Ed è una consegna per tutti, per la comunità dei discepoli riunita.

La comunità cristiana ha quindi come compito quello di mostrare a tutti gli uomini il progetto divino realizzato da Gesù, cioè offrire la possibilità di uscire dalla situazione di ingiustizia rompendo con la condotta precedente. Quanti lo accolgono vengono liberati dal passato di peccato; quanti, pur ricevendo questa proposta di vita, la rifiutano rimangono sotto la cappa dell’ingiustizia/peccato.

Il percorso non è facile, per questo il vangelo mostra tutte le chiusure e difficoltà che si possono trovare nella comunità cristiana. Il primo problema è il rischio di una vita ecclesiale ripiegata su di sé, dominata dalla fobia del mondo esterno e dunque incapace di alcuna iniziativa vitale perché paralizzata in un atteggiamento difensivo. È questo il senso del luogo chiuso. È una comunità cristiana che deve lei stessa risorgere.

Poi c’è la spelndida figura di Tommaso, assente una prima volta e presente la seconda nel gruppo dei discepoli, che ha come soprannome “Didimo”, che significa “gemello”, “doppio”. È un discepolo di Gesù, ma sulla fede fa prevalere le sue pretese, le sue condizioni; sulla fiducia ai fratelli, gli altri discepoli, fa prevalere la durezza e la sufficienza; sull’oggettività e continuità di presenza in mezzo agli altri, fa prevalere un atteggiamento singolare e incostante. Dunque è figura di doppiezza. In lui ogni credente può riconoscere le proprie ambiguità e doppiezze nella vita di fede, tutte forme con cui ci difendiamo dal movimento di affidamento e ci isoliamo. Ma la fede cristiana non è vivibile individualmente, come avventura isolata, occorrono i fratelli. ed è proprio qui che si sviluppa il tema della fede di questo personaggio: Tommaso non vuole credere alla presenza di Gesù risorto e vivente, fidandosi della parola dei suoi fratelli, è questo il dramma che lo accompagna. È una questione di fiducia reciproca. Per quanto ci siano molte scusanti (la risurrezione è un tema difficile da credere; aveva lo stesso diritti degli altri di fare esperienza del Risorto; in quanto ‘fuori’ meritava una maggiore attenzione) la sua fatica riguarda proprio la relazione di fiducia con i fratelli. La chiusura non è tanto nei confronti del mondo esterno, ma nei confronti di chi condivide il cammino con noi, di chi ci è fratello nella fede.

Tommaso, l’incredulo, arriverà a dire: “Mio Signore e mio Dio!”, pronunciando la confessione di fede più alta di tutto il quarto vangelo, e rinuncerà anche alla pretesa di toccare il corpo piagato sentendo accolte le sue fatiche e durezze che, sicuramente in malo modo, con rabbia e arroganza, aveva confessato alla comunità. È questa accoglienza delle difficoltà personali che permette la fiducia e il passaggio alla fede. Bisogna avere il coraggio di comunicare le proprie fatiche alla comunità per sperimentare il fatto di sentirle accolte dal Signore.

Un altro passaggio molto difficile, per Tommaso come per noi, è quello di vedere nei corpi piagati la potenza di una trasfigurazione che fa delle piaghe delle cicatrici luminose e piene di senso: non più segno di morte o di peccato, ma segno di guarigione e di vita per sempre. Non solo le ferite di Gesù o dei poveri ma le cicatrici che rimangono in noi per ferite che, più o meno volontariamente, ci siamo fatti in passato. Una vita nuova è possibile se siamo capaci di vedere non più delle piaghe aperte ma delle cicatrici luminose che indicano la vittoria sul male e sulla morte.

Per arrivare a riconoscere Gesù Risorto, per Tommaso come per noi, bisogna essere in mezzo ai fratelli, con fiducia e gratitudine e così sperimentare che dove due o tre sono riuniti nel suo nome, il Signore è in mezzo a loro.

Commento di don Domenico Malmusi

18 aprile 2014

Venerdì Santo

Don Giovanni Gilli - Gesù Inchiodato Alla Croce

Don Giovanni Gilli – Gesù Inchiodato Alla Croce

Don Giovanni Gilli - Gesù Crocifisso

Don Giovanni Gilli – Gesù Crocifisso

Don Giovanni Gilli - Deposizione Di Gesù Nel Sepolcro

Don Giovanni Gilli – Deposizione Di Gesù Nel Sepolcro

Don Giovanni Gilli - Deposizione Di Gesù Nel Sepolcro

Don Giovanni Gilli – Deposizione Di Gesù Nel Sepolcro

Dal Vangelo secondo Giovanni 18,1-40.19,1-42.
In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli e andò di là dal torrente Cèdron, dove c’era un giardino nel quale entrò con i suoi discepoli.
Anche Giuda, il traditore, conosceva quel posto, perché Gesù vi si ritirava spesso con i suoi discepoli.
Giuda dunque, preso un distaccamento di soldati e delle guardie fornite dai sommi sacerdoti e dai farisei, si recò là con lanterne, torce e armi.
Gesù allora, conoscendo tutto quello che gli doveva accadere, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?».
Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era là con loro anche Giuda, il traditore.
Appena disse «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra.
Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno».
Gesù replicò: «Vi ho detto che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano».
Perché s’adempisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato».
Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori e colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco.
Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?».
Allora il distaccamento con il comandante e le guardie dei Giudei afferrarono Gesù, lo legarono
e lo condussero prima da Anna: egli era infatti suocero di Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno.
Caifa poi era quello che aveva consigliato ai Giudei: «E’ meglio che un uomo solo muoia per il popolo».
Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme con un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote e perciò entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote;
Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare anche Pietro.
E la giovane portinaia disse a Pietro: «Forse anche tu sei dei discepoli di quest’uomo?». Egli rispose: «Non lo sono».
Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava.
Allora il sommo sacerdote interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e alla sua dottrina.
Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto.
Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto».
Aveva appena detto questo, che una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?».
Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?».
Allora Anna lo mandò legato a Caifa, sommo sacerdote.
Intanto Simon Pietro stava là a scaldarsi. Gli dissero: «Non sei anche tu dei suoi discepoli?». Egli lo negò e disse: «Non lo sono».
Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?».
Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.
Allora condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua.
Uscì dunque Pilato verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?».
Gli risposero: «Se non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato».
Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge!». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno».
Così si adempivano le parole che Gesù aveva detto indicando di quale morte doveva morire.
Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei Giudei?».
Gesù rispose: «Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?».
Pilato rispose: «Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?». E detto questo uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui nessuna colpa.
Vi è tra voi l’usanza che io vi liberi uno per la Pasqua: volete dunque che io vi liberi il re dei Giudei?».
Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.
Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare.
E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora; quindi gli venivano davanti e gli dicevano:
«Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi.
Pilato intanto uscì di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui nessuna colpa».
Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».
Al vederlo i sommi sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo, crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui nessuna colpa».
Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».
All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura
ed entrato di nuovo nel pretorio disse a Gesù: «Di dove sei?». Ma Gesù non gli diede risposta.
Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?».
Rispose Gesù: «Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande».
Da quel momento Pilato cercava di liberarlo; ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque infatti si fa re si mette contro Cesare».
Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette nel tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà.
Era la Preparazione della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!».
Ma quelli gridarono: «Via, via, crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i sommi sacerdoti: «Non abbiamo altro re all’infuori di Cesare».
Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.
Essi allora presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio, detto in ebraico Gòlgota,
dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù nel mezzo.
Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei».
Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove fu crocifisso Gesù era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco.
I sommi sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: il re dei Giudei, ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei».
Rispose Pilato: «Ciò che ho scritto, ho scritto».
I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.
Perciò dissero tra loro: Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca. Così si adempiva la Scrittura: Si son divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica han gettato la sorte. E i soldati fecero proprio così.
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala.
Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!».
Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.
Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: «Ho sete».
Vi era lì un vaso pieno d’aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca.
E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». E, chinato il capo, spirò.
Era il giorno della Preparazione e i Giudei, perché i corpi non rimanessero in croce durante il sabato (era infatti un giorno solenne quel sabato), chiesero a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e fossero portati via.
Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe al primo e poi all’altro che era stato crocifisso insieme con lui.
Venuti però da Gesù e vedendo che era gia morto, non gli spezzarono le gambe,
ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua.
Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera e egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate.
Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso.
E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto.
Dopo questi fatti, Giuseppe d’Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù.
Vi andò anche Nicodèmo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre.
Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei.
Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto.
Là dunque deposero Gesù, a motivo della Preparazione dei Giudei, poiché quel sepolcro era vicino.

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