Parrocchia Di Collegara-San Damaso

18 aprile 2014

Giovedì Santo

Don Gianni Gilli - Ultima Cena, Rubiara Modena

Don Gianni Gilli – Ultima Cena, Rubiara Modena

Don Gianni Gilli - Ultima Cena, Rubiara Modena

Don Gianni Gilli – Ultima Cena, Rubiara Modena

Don Gianni Gilli - Ultima Cena, Rubiara Modena

Don Gianni Gilli – Ultima Cena, Rubiara Modena

 

Dal Vangelo secondo Giovanni 13,1-15.
Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.
Mentre cenavano, quando gia il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo,
Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava,
si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto.
Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?».
Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo».
Gli disse Simon Pietro: «Non mi laverai mai i piedi!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me».
Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!».
Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti».
Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete mondi».
Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Sapete ciò che vi ho fatto?
Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono.
Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri.
Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi».

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Giovedì santo

Un sacramento in più

Come sappiamo ormai molto bene Giovanni non racconta l’istituzione dell’Eucaristia, come Marco, Matteo e Luca, ma narra l’episodio piuttosto enigmatico della lavanda dei piedi. Quando Giovanni scrive il suo vangelo la celebrazione dell’Eucaristia è ormai una prassi consolidata, celebrata regolarmente con il rispetto di tutte le sue parti in modo non molto diverso da come facciamo noi ora. Eppure l’evangelista non la racconta, quasi come che fosse qualcosa di superfluo, marginale. E forse è davvero così: se l’Eucaristia è ridotta ad un rito, se la preoccupazione è il rispetto delle norme codificate, allora è davvero qualcosa di marginale. Forse il rischio era già presente nelle comunità cristiane del primo secolo e è per questo allora che al centro del racconto di Giovanni c’è invece la lavanda dei piedi, un gesto che suscita sconcerto e forti resistenze perfino fra coloro che hanno la maggiore familiarità con Gesù e con i suoi modi spesso complessi, oscuri, che disorientano. Gesù accoglie lebbrosi e peccatori, adultere e prostitute, pubblicani e farisei, con delle modalità che sono difficili da imitare ma comunque comprensibili: il gesto di questa sera però ci fa pensare che stia veramente esagerando.

Ad un certo punto interrompe la cena e poi si spoglia. Nei racconti degli altri evangelisti prende il pane e dice: “Questo è il mio corpo”, qui, nel Vangelo di Giovanni mette in mostra il suo corpo che viene letteralmente messo a nudo. Provate a immaginare che durante una cena importante chi vi ha invitato improvvisamente si tolga tutti i vestiti e resti in mutande davanti a voi, sotto lo sguardo di tutti. Gesù è così, con un asciugamano intorno alla vita esposto a tutti. Ma non solo si mostra: si avvicina e tocca i piedi, un gesto che riguarda l’intimità. Fra l’altro non ha nulla a che fare con l’accoglienza o con l’igiene che avrebbe senso prima di mettersi a tavola: si camminava con i sandali o a piedi nudi e ci mangiava sdraiati su tappeti, quindi aveva senso lavarsi prima. È un gesto gratuito, che chiede di essere compreso e significato in una logica diversa. Ma questa logica è dura, enigmatica. Per questo suscita resistenze fortissime partendo da Pietro che esclama: “Tu non mi laverai i piedi in eterno!” fino ad arrivare ai discepoli di oggi.

Dopo il dialogo con Pietro, nel quale si convince a lasciarsi lavare i piedi, Gesù, non soddisfatto di aver compiuto un gesto così singolare e anche un po’ scioccante, lo istituisce come una prassi comunitaria: “Vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”, cioè ha chiesto che si continuasse a farlo dopo di lui. Gesù ha lavato i piedi ai discepoli, ha fatto un atto che è sicuramente enigmatico, e poi ha comandato ai discepoli di fare lo stesso, sul suo esempio, alla sua maniera.

Se con questo gesto Gesù intendeva istituire un sacramento possiamo dire che abbia veramente fallito! I sacramenti sono ‘segni efficaci della grazia di Dio’, gesti che hanno certamente un profondo significato teologico e che si concretizzano in un rito. Allora non è necessario pensare al gesto della lavanda come ad un sacramento perché raggiunga il suo scopo. È un gesto che afferma in modo molto evidente la necessità e l’insufficienza dei riti nella nostra vita di fede, ci dice che il rito ha senso solo se e quando è dipendente da una relazione umana che sia guidata da una morale che sia autentica, quella dell’amore, dell’intimità, del servizio.

Venerdì santo

Saper vedere.

La prima lettura presenta il servo sofferente, qualcuno il cui destino è completamente ribaltato: dal successo iniziale al deterioramento totale a causa della folla che però non capisce e incolpa Dio. Nella seconda lettura si parla del sommo sacerdote che ha condiviso in tutto la nostra vita imparando l’obbedienza suprema. Gesù è il compimento di queste scritture, colui che soffre ingiustamente e diventa capace di offrire a Dio il sacrificio perfetto.

Il racconto della passione mostra questo percorso di Gesù. Dice l’evangelista che Gesù esce per andare nel giardino a pregare “sapendo tutto quello che gli doveva accadere”. È un sapere che non gli viene da una conoscenza trascendentale, non è il superuomo che conosce cose sconosciute ai più. È semplicemente la conoscenza di un uomo abituato ad osservare e ascoltare, di un uomo che ricerca il senso delle cose che accadono e che capisce che imboccando la strada della verità e della profezia non ci può essere un’uscita diversa da quella degli altri profeti. Ha già sperimentato il sospetto, le maldicenze, calunnie e ostilità varie, capisce che la fine è vicina. Questa stessa abitudine alla comprensione profonda della vita e dei suoi eventi diventa forza, solidità. È così che si presenta a coloro che vengono ad arrestarlo, cosciente della realtà, capace di dominare gli eventi.

Proprio per questo non ha bisogno di aggiungere parole, ha già parlato al mondo apertamente, tutti coloro che lo hanno ascoltato possono testimoniare. Fra i discepoli però c’è solo Pietro, nascosto fra i servi che nega di conoscere Gesù.

Una tappa importante nel racconto di Giovanni è l’incontro con Pilato. Un processo farsa in cui l’innocenza di Gesù è riconosciuta dallo stesso governatore, che cerca di liberarlo ma che soccombe alla ragione politica. I giudei si prendono gioco di Pilato con una frase che è in realtà è una bestemmia perché dichiarano di non avere altro re che Cesare mentre tutta la Bibbia ripete continuamente che soltanto Dio è Re per Israele. Così non si capisce perché questo sfogo di rabbia e di violenza. Non c’è una ragione vera per condannare Gesù, il male si è scatenato su di lui fino alla morte violenta, fino alla tortura, ma in un modo banalissimo. È come se si fossero concentrati nell’ora della croce una serie di atteggiamenti che, presi uno per uno, sono gli atteggiamenti quotidiani e banali che noi assumiamo nella vita, atteggiamenti ordinari che producono l’abominio.

A volte si pensa che un male così grande venga da responsabilità grandi, dal dominio di chi governa, di chi detiene il potere economico, ma non è così, il male viene da noi, dai piccoli, banali atteggiamenti di ciascuno di noi che, sommati, producono l’infamia, l’odio, il disprezzo.

Pilato ha permesso che lo uccidessero, la folla non ha pensato, i sacerdoti hanno fatto il loro gioco… chi per paura, chi per ignoranza, per pigrizia, per servilismo, oppure indifferenza. Le persone che erano là, erano persone normali, come noi, forse buone, ma poi, tutte insieme, ognuna ha dato il suo contributo affinché il male si instaurasse e regnasse, magari solo con l’atteggiamento mediocre di chi non vuole entrare nel problema, di chi non vigila. Per noi è l’indifferenza verso il vicino, la gelosia, il desiderio di non sapere, la mancanza di franchezza, sono le piccole menzogne, gli “arrangiamenti” della propria coscienza. Nella passione di Gesù c’è stato l’accumulo di tutti questi atteggiamenti: ecco la banalità del male, come dice Hannah Arendt, è così banale il male.

Gesù sa, perché si è esercitato a vedere, si è esercitato ad ascoltare, si è esercitato a uscire da se stesso per raggiungere l’altro. È questo l’atteggiamento che può fare di un cristiano un profeta, non tanto i doni intellettuali o i discorsi sapienti, ma un esercizio, un esercizio di vista, di ascolto, di attenzione, di uscita da se stesso verso l’altro, verso il mondo. È così che si trova la forza di testimoniare fino alla fine, fino al dono della vita.

Veglia

Gioia e timore

Il racconto dell’incontro fra le donne e il risorto fatto da Matteo contiene una strana ripetizione: le donne che camminano verso il sepolcro vedono qualcuno; si spaventano e vengono rassicurate e poi sono mandate dai discepoli a riferire di andare in Galilea. Tutto questo narrato due volte. La prima volta c’è un terremoto, dei segni grandi di teofania, un angelo che rotola via la pietra del sepolcro per mostrare che dentro è vuoto, le guardie tramortite e l’invito alle donne di non temere, guardare la tomba vuota e andare dai discepoli per dire che Gesù li precede in Galilea. Poi la storia viene ripetuta in modo più sintetico e con un protagonista diverso: non più un angelo ma Gesù stesso. Le differenze sono nel fatto che le donne si stringono ai piedi di Gesù e lo adorano e poi per un termine diverso che usa Gesù nel mandato. L’angelo aveva detto: “Andate a dire ai suoi discepoli…” mentre Gesù dice: “Andate a dire ai miei fratelli…”.

Gesù ci chiama fratelli, non si concepisce solo come nostro maestro, vuole una relazione più intima, personale. Anche la lettera agli Ebrei sottolinea che “non si vergogna di chiamarci fratelli” (Eb 2,11) e che abbiamo in comune la carne e il sangue. Questa comunione noi celebriamo nell’eucarestia, una comunione che ci conduce dove è lui, alla vita, alla resurrezione. È lì che ci ha preceduti perché possiamo anche noi entrare nella vita e nella risurrezione. Però non è solo nella risurrezione che ci precede, è questa la costante del doppio messaggio dato dall’angelo e dal risorto: ci precede in Galilea il luogo delle origini della missione, il luogo della quotidianità. Non il luogo santo come poteva essere il tempio di Gerusalemme, non il luogo dello straordinario come potrebbe essere il monte della trasfigurazione, ma nella realtà quotidiana e feriale, proprio nel luogo in cui non pensiamo di trovarlo perché troppo banale, troppo concreto. Ieri sera usavo il termine banale per indicare il male, quel male fatto di piccoli atteggiamenti quotidiani, fatto di mediocrità, di indifferenza, di aggiustamenti della coscienza. Gesù ci precede proprio lì dove esiste la banalità, nella Galilea della genti, luogo di accozzaglia, di barbarie, di ignoranza. La banalità produce il male, ma è la stessa banalità che nasconde in sè le tracce del risorto.

È proprio raggiungendo gli uomini sul loro cammino di dubbi e di resistenze, di scoraggiamento e disillusione, come il cammino dei discepoli di Emmaus, che scopriamo che il Cristo è già presente, che il Regno si sta manifestando nelle situazioni più varie, nei luoghi più inaspettati. È solo mettendoci in cammino che possiamo raggiungere il Risorto.

Certamente pensare che il Signore non si trova nella sicurezza delle nostre case e delle nostre celebrazioni ma nella realtà vivente del mondo al di fuori di noi ci spaventa. È per questo che sia l’angelo che Gesù ripetono: “Non temete!”. Mi colpisce soprattutto nella prima narrazione, quella con l’angelo perché il vangelo riporta che le guardie caddero tramortite dallo spavento mentre alle donne vien detto: “Non abbiate paura, voi!” Voi che avete ascoltato la sua parola, voi che vedendo una tomba vuota ricordate ciò che aveva detto, voi che cercate Gesù. Voi, che già lo conoscete, non dovete temere.

Bella idea non temere! Nonostante le parole dell’angelo le donne ritornano dal sepolcro “con spavento e gioia grande” cioè ancora con quel timore che hanno provato vedendo il segno. E questo perché la gioia vera è sempre anche accompagnata dal timore. Tutto ciò che dà gioia ha dei costi, chiede di compromettere la propria vita, di guardare al futuro impegnandolo, di portare la responsabilità della gioia che si annuncia. Tutte cose che ci fanno paura! Però è solo vivendo questa gioia che contiene anche il timore che possiamo scoprire la risurrezione. Il risorto è sempre più avanti, in una promessa, in un’attesa, in un luogo ancora non raggiunto.

Il luogo della gioia, ma anche del timore.

Pasqua

Una vita da risorti

Nessun vangelo descrive la risurrezione di Gesù, anche stanotte ascoltando il racconto di Matteo abbiamo sentito di un angelo che rotola via la pietra ma solo per mostrare che il sepolcro è vuoto, che Gesù è già risorto. Lo scopo degli evangelisti è offrire delle indicazioni come incontrare il risorto. Nessuno è stato testimone della risurrezione di Gesù, però ciascuno è chiamato a diventare testimone del risuscitato, di Gesù Figlio di Dio morto e risorto.

La narrazione comincia con un dato cronologico che, allo stesso tempo è un dato teologico. L’espressione primo giorno richiama il racconto della creazione: “…E fu sera e fu mattina: primo giorno”. C’è un nuovo inizio, una nuova creazione. È passato il sabato, cioè l’antica alleanza, si riparte con la ferialità, la quotidianità della vita.

In questo primo giorno Maria va al sepolcro per cercare Gesù. Lei, come tutti noi, è profondamente segnata, condizionata dall’idea della morte come fine di tutto, un’idea che domina tutta la narrazione dove per ben nove volte viene menzionato il sepolcro e mai il giardino, luogo di vita, dove il sepolcro era situato. Maria vede la pietra rotolata via e conferma la sua idea di morte: hanno trafugato il corpo di Gesù, questo è l’annuncio che porta ai discepoli.

Anche loro corrono, vanno al sepolcro con la fretta della curiosità e dell’amore. L’amore è più forte, dà più energia perché il discepolo amato arriva per primo anche se non entra fino a che non sarà entrato Pietro. È importante che il discepolo, per il quale la morte era la fine di tutto e che per questo ha rinnegato Gesù e lo ha abbandonato, faccia per primo esperienza della vita.

Giovanni poi racconta minuziosamente ciò che vede: prima di tutti i teli, che sono come lenzuola di un letto sfatto, cioè abbandonati da qualcuno che si è alzato, qualcuno che ora vive. Tanto più che se il cadevere fosse stato trafugato sarebbe stato preso con le bende. Poi vede anche il sudario, simbolo di morte che però non è posto con i teli/lenzuola simbolo di vita, ma sta piegato accuratamente in un luogo a parte, non serve più è sistemato per essere messo via.

Pietro ha uno sguardo generale che coglie tutte queste cose ma senza capirne il significato, solo il discepolo amato “vide e credette” cioè comprende il significato profondo di quei segni. È il discepolo che nell’ultima cena è vicino a Gesù, l’unico oltre a Gesù a conoscere le intenzioni di Giuda, è colui che è rimasto fin sotto la croce, l’unico che non è fuggito, è colui che diventa custode della madre di Gesù ed è da lei custodito. È questa relazione d’amore che permette di comprendere.

In realtà anche questa intimità con Gesù non è sufficiente per essere testimoni e annunciatori della risurrezione. Certo l’amore conduce in fretta verso il luogo dove è stato Gesù, i segni di morte visti e interpretati dall’amore permettono di credere ma c’è ancora un altro criterio di verità che è quello della Parola: non avevano ancora compreso la Scrittura… annota l’evangelista.

Stranamente i discepoli non vanno dagli altri ad annunciare quanto sperimentato. Il versetto 10 dice semplicemente che tornarono a casa. È solo al versetto 18 che si dice che viene annunciato a tutti i discepoli che il Signore è risorto. Fa questi due versetti c’è il racconto dell’incontro della Maddalena con Gesù risorto. Un racconto bellissimo in cui Maria sperimenta la presenza viva del suo amato maestro nella sua esistenza.

Per testimoniare la risurrezione non basta vedere un sepolcro vuoto e sapere che Gesù è vivo, è necessario sperimentarlo presente, proprio come succede a Maria di Magdala che dopo aver incontrato il Signore diventa “apostola degli apostoli”, sarà solo lei che annuncerà la resurrezione.

Amore, segni di morte, Scrittura ed esperienza della presenza di Gesù sono gli elementi che ci rendono testimoni del Risorto, testimoni non di un evento passato ma di una realtà che si vive ora, qui. Gesù Cristo non è solo colui che è risorto una volta per tutte ma è la risurrezione e la vita, un’energia che porta in alto, che porta vita, risveglio. Occorre lasciar rotolare via i macigni che bloccano il nostro cuore e lasciare emergere questa energia di vita che viene dall’incontro con il Signore Gesù e iniziare rapporti nuovi. Senza nessuna paura come ci è stato ripetuto questa notte, neanche paura della morte, perché Gesù Cristo è risorto e ha inaugurato con noi e per noi una vita nella libertà, senza nessuna schiavitù, una vita capace di vedere che la morte non è l’ultima realtà, che in Gesù risorto la morte è vinta per sempre. Proprio nei rapporti che sappiamo rendere nuovi possiamo sperimentarlo.

Commento di don Domenico Malmusi

7 aprile 2014

Vangelo ECommento Domenica 6 Aprile – V Di Quaresima

Filed under: Vangelo — Insieme @ 10:05
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Sebastiano del Piombo (Sebastiano Luciani, 1485-1547), “Resurrezione di Lazzaro”, 1517-1519, Olio su tela, 381 x 289 cm, National Gallery, London

Sebastiano del Piombo (Sebastiano Luciani, 1485-1547), “Resurrezione di Lazzaro”, 1517-1519, Olio su tela, 381 x 289 cm, National Gallery, London

Dal Vangelo secondo Giovanni 11,1-45.
In quel tempo, era malato un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella.
Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato.
Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, il tuo amico è malato».
All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato».
Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro.
Quand’ebbe dunque sentito che era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava.
Poi, disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!».
I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?».
Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo;
ma se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce».
Così parlò e poi soggiunse loro: «Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo».
Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se s’è addormentato, guarirà».
Gesù parlava della morte di lui, essi invece pensarono che si riferisse al riposo del sonno.
Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto
e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!».
Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse ai condiscepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».
Venne dunque Gesù e trovò Lazzaro che era gia da quattro giorni nel sepolcro.
Betània distava da Gerusalemme meno di due miglia
e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria per consolarle per il loro fratello.
Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa.
Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!
Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà».
Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà».
Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell’ultimo giorno».
Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà;
chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?».
Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo».
Dopo queste parole se ne andò a chiamare di nascosto Maria, sua sorella, dicendo: «Il Maestro è qui e ti chiama».
Quella, udito ciò, si alzò in fretta e andò da lui.
Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro.
Allora i Giudei che erano in casa con lei a consolarla, quando videro Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono pensando: «Va al sepolcro per piangere là».
Maria, dunque, quando giunse dov’era Gesù, vistolo si gettò ai suoi piedi dicendo: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!».
Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse:
«Dove l’avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!».
Gesù scoppiò in pianto.
Dissero allora i Giudei: «Vedi come lo amava!».
Ma alcuni di loro dissero: «Costui che ha aperto gli occhi al cieco non poteva anche far sì che questi non morisse?».
Intanto Gesù, ancora profondamente commosso, si recò al sepolcro; era una grotta e contro vi era posta una pietra.
Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, gia manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni».
Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?».
Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato.
Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato».
E, detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!».
Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: «Scioglietelo e lasciatelo andare».
Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di quel che egli aveva compiuto, credettero in lui.

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V Domenica di Quaresima

Vita nuova ora

Come succede sempre nel vangelo di Giovanni un episodio di per sé abbastanza semplice – malattia e morte di Lazzaro e resurrezione temporanea – diventa occasione per una riflessione molto profonda. Nel racconto di oggi la parte principale è certamente il dialogo con Marta, ma molti altri elementi meritano di essere approfonditi.

Lazzaro è definito dalle sorelle ‘colui che tu ami’ e da Gesù ‘il nostro amico’. Colui che tu ami ci fa pensare al discepolo amato, che non è tanto un discepolo privilegiato quanto un discepolo che si è accorto dell’amore di Gesù per lui. Lazzaro è dunque un discepolo che diventa modello per tutti perché mostra l’effetto dell’adesione a Gesù. Gesù dice che la malattia non lo condurrà alla morte perché l’incontro con lui cambia la situazione dell’uomo: la vita cessa per quelli che vivono nel peccato, cioè nel rifiuto della vita che viene da Dio. Per Gesù parlare di morte e vita non significa alterare il ciclo normale della vita fisica eliminando la morte biologica, lui stesso non sfuggirà a questo evento, ma dare a tutto questo un nuovo significato. Per noi la morte è un evento paralizzante, e il vangelo lo mostra in Maria che resta seduta in casa: la morte del fratello, che per lei significa la fine della vita, la riduce all’inattività, resta chiusa in casa insieme a quei giudei venuti a consolarla, cioè coloro che non credono in Gesù. Tutta la comunità è paralizzata e chiusa nell’ambiente del dolore.

Marta invece corre da Gesù. Il dialogo che segue è molto importante perché mostra un percorso di fede molto chiaro: all’inizio la fede di Marta è quella giudica, espressa con i modi dei farisei: “So che puoi chiedere qualcosa”, “So che risorgerà nell’ultimo giorno”. È un sapere che viene dalla tradizione religiosa d’Israele, un sapere che, al massimo, ammette per Gesù un ruolo di mediazione, profetico non la profonda unità che ha col Padre (“Qualunque cosa chiederai a Dio”). Gesù chiede un passo ulteriore: lui è venuto a trasmettere una qualità di vita diversa, viene a comunicare la vita che egli stesso possiede, la vita divina, indistruttibile. Gesù è la risurrezione perché è la vita (“Io sono la via, la verità e la vita”). Questa qualità di vita quando si incontra con la morte, la supera. Lo sguardo del credente non può essere rivolto solo al futuro, è nel presente che inizia la vita eterna, la vita divina. È questa la crescita di Marta nella fede. Ora non dice più che sa, ma: “Credo!”.

L’arrivo di Gesù toglie anche Maria dalla immobilità in cui giaceva: paralizzata in un dolore senza speranza ora invece esce incontro a lui. L’incontro turba Gesù. La nostra traduzione dice che si commosse profondamente, ma in realtà il verbo greco esprime uno sbuffo rabbioso, una indignazione profonda, una cosa più forte e rabbiosa della commozione. Anche Gesù sente la morte come ingiusta, come qualcosa che sottrae all’esistenza umana la piena fiducia in Dio, che trasmette l’idea di vittoria definitiva del male. È a questo che vuole ribellarsi Gesù, all’idea che il male possa avere l’ultima parola. La risurrezione di Lazzaro che, pur non essendo definitiva, è un anticipo di quella di Gesù vuole dire proprio questo. Certo occorre uno sguardo di fede per comprenderlo: Marta, che poco prima ha professato la sua fede in Gesù, ha già un moto di regressione davanti alla prospettiva di aprire la tomba, e Gesù riprende il tema della fede: “Se crederai vedrai la gloria di Dio”. La risurrezione di Lazzaro viene condizionata dalla fede della sorella, è la fede che permette di sperimentare la vita nuova, la vita piena.

Poi Gesù ordina di liberare Lazzaro che all’uscita dalla tomba è legato come un prigioniero, infatti è prigioniero della morte: molti salmi descrivono la morte come un essere presi dai suoi lacci, essere incatenati, stretti da funi. Il Signore è colui che libera, che permette di camminare.

Il racconto finisce in modo molto asciutto. Non si parla di feste, della gioia delle sorelle, dei complimenti dei presenti. Semplicemente si annota che qualcuno crede. In fondo lo scopo di Gesù non è stupire ma semplicemente manifestare che non è vero che il male ha l’ultima parola sull’esistenza degli uomini ed è nella normalità del vivere che manifestiamo di essere risorti con lui ad una vita nuova.

Commento di Don Domenico Malmusi

Sebastiano del Piombo (Sebastiano Luciani, 1485-1547), “Resurrezione di Lazzaro”, 1517-1519, Olio su tela, 381 x 289 cm, National Gallery, London

 

31 marzo 2014

Vangelo E Commento Domenica 30 Marzo – IV di Quaresima

Filed under: Vangelo — Insieme @ 07:38
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El Greco - Gesù Guarisce Il Cieco Nato

Dal Vangelo secondo Giovanni 9,1-41.
In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita
e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?».
Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio.
Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare.
Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo».
Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco
e gli disse: «Và a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)». Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: «Non è egli quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?».
Alcuni dicevano: «E’ lui»; altri dicevano: «No, ma gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!».
Allora gli chiesero: «Come dunque ti furono aperti gli occhi?».
Egli rispose: «Quell’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: Và a Sìloe e lavati! Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista».
Gli dissero: «Dov’è questo tale?». Rispose: «Non lo so».
Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco:
era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi.
Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo».
Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri dicevano: «Come può un peccatore compiere tali prodigi?». E c’era dissenso tra di loro.
Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «E’ un profeta!».
Ma i Giudei non vollero credere di lui che era stato cieco e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista.
E li interrogarono: «E’ questo il vostro figlio, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede?».
I genitori risposero: «Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco;
come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso».
Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano gia stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga.
Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età, chiedetelo a lui!».
Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Dà gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore».
Quegli rispose: «Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo».
Allora gli dissero di nuovo: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?».
Rispose loro: «Ve l’ho gia detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?».
Allora lo insultarono e gli dissero: «Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè!
Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia».
Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi.
Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta.
Da che mondo è mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato.
Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla».
Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?». E lo cacciarono fuori.
Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: «Tu credi nel Figlio dell’uomo?».
Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?».
Gli disse Gesù: «Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui».
Ed egli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi.
Gesù allora disse: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi».
Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo forse ciechi anche noi?».
Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane».

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IV Domenica di Quaresima

Luce

Il racconto evangelico prende il via dallo sguardo diverso con cui i discepoli e Gesù affrontano le situazioni del mondo. Accecati da un assioma teologico che lega in modo automatico la malattia al peccato i discepoli vedono nell’uomo cieco che incontrano un peccatore, mentre Gesù vede nella malattia di quell’uomo l’occasione del manifestarsi dell’azione di Dio. La persona è la stessa, lo sguardo con cui la si vede è diametralmente opposto.

L’interesse del racconto è dato dalla lunga e meticolosa descrizione di ciò che il segno compiuto da Gesù suscita. Il segno in sé è narrato in modo estremamente conciso mentre il dibattito è articolato come un lungo processo a Gesù, che è considerato un peccatore. Mi sembra importante anche notare che Gesù però è assente in questa lunga diatriba, il processo è celebrato in contumacia.

Le prime domande suscitate dal segno sono le classiche domande da chiacchiere di mercato: è lui, non è lui, chi è stato, come ha fatto, dov’è… È il chiacchiericcio della folla, che è curiosa, invadente, indiscreta. Parole che non servono, non cambiano nulla e nessuno. Vi è poi l’atteggiamento dei genitori che per paura non vanno oltre una banale e distaccata constatazione del fatto.

Poi ci sono i farisei, con il loro sapere teologico, la loro pomposità, che li porta a discutere sul sabato e sul peccato per non lasciarsi interpellare dal segno posto da Gesù. Sono impermeabili ai segni e ottusi nella loro autosufficienza e accusano tutti gli altri di peccato. Per non essere sempre duri con i farisei, che sono strettamente osservanti, vorrei dire che la situazione è davvero strana e imbarazzante. Con quel gesto Gesù ha violato il sabato e quindi porta in sé contemporaneamente il volere di Dio, espresso nel gesto di guarigione e il suo contrario, cioè la violazione della legge sabbatica. E così all’inizio non vogliono credere, poi criticano l’interpretazione che ne dà il cieco guarito e, infine ne impediscono la testimonianza cacciandolo fuori. È questo non lasciarsi mettere in discussione che è colpevole, il propendere immediatamente per l’interpretazione più chiusa e rigida.

È questo il punto che dovrebbe toccare anche noi: quanto ci lasciamo interpellare dagli eventi, dalle situazioni strane e contraddittorie? Quanto restiamo ostinatamente attaccati ai nostri rifiuti, dalle nostre chiusure? L’insistenza del vangelo sulla verità del segno, che viene sempre comprovato in tutti gli interrogatori – della folla, dei genitori e del cieco – vuole rendere ancora più consapevole e responsabile il rifiuto dei farisei che chiudono gli occhi all’evidenza, cioè si comportano da ciechi.

All’opposto il cieco, che riconosce di non sapere, è disponibile, ragiona a partire dalla realtà del fatto accaduto e quindi si dimostra un illuminato. Proprio per questo però è coinvolto nel destino di rifiuto e di opposizione di Gesù divenuto suo Signore e Maestro.

Come già detto, mentre il cieco dichiara diverse volte di non sapere, i farisei affermano sempre di sapere ed è proprio questa pretesa che spinge Gesù ad un giudizio molto duro: “Se foste ciechi non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane”. La cecità dei farisei è responsabile e dunque colpevole. E il peccato non sono tanto le singole azioni sbagliate ma questa chiusura davanti a Gesù, ai suoi segni, alle sue parole che porta al rifiuto della Verità a causa della presunzione di conoscere Dio.

Questo è un rischio tipico delle persone di chiesa, è proprio il nostro ambiente che custodisce le immagini più rigide di Dio e dell’insegnamento delle scritture, è proprio fra di noi che dobbiamo domandarci se siamo ciechi o se sappiamo vedere con l’occhio di Gesù. Già all’inizio citavo lo sguardo di Gesù che deve essere un po’ il metro di paragone per noi: se sappiamo vedere nel male l’occasione per l’azione misericordiosa di Dio significa che stiamo acquisendo lo sguardo di Gesù, che sappiamo lasciarci interpellare dalla storia e dalle persone per maturare il nostro cammino di fede.

Commento di don Domenico Malmusi

24 marzo 2014

Vangelo E Commento Domenica 23 Marzo – III Di Quaresima

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Henryk Hektor Siemiradzki - Gesù E La Samaritana, Olio Su Tela, Lviv National Art Gallery

Henryk Hektor Siemiradzki – Gesù E La Samaritana, Olio Su Tela, Lviv National Art Gallery

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 4,5-42.
In quel tempo, Gesù giunse ad una città della Samaria chiamata Sicàr, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio:
qui c’era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno.
Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: «Dammi da bere».
I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi.
Ma la Samaritana gli disse: «Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani.
Gesù le rispose: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva».
Gli disse la donna: «Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’acqua viva?
Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo gregge?».
Rispose Gesù: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete;
ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna».
«Signore, gli disse la donna, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua».
Le disse: «Và a chiamare tuo marito e poi ritorna qui».
Rispose la donna: «Non ho marito». Le disse Gesù: «Hai detto bene “non ho marito”;
infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero».
Gli replicò la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta.
I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare».
Gesù le dice: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre.
Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei.
Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori.
Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità».
Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa».
Le disse Gesù: «Sono io, che ti parlo».
In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: «Che desideri?», o: «Perché parli con lei?».
La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente:
«Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?».
Uscirono allora dalla città e andavano da lui.
Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia».
Ma egli rispose: «Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete».
E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno forse gli ha portato da mangiare?».
Gesù disse loro: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera.
Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che gia biondeggiano per la mietitura.
E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete.
Qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete.
Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato; altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro».
Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto».
E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni.
Molti di più credettero per la sua parola
e dicevano alla donna: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».

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III Domenica di Quaresima

Spirito e verità

Il versetto che precede l’inizio del nostro racconto dice che Gesù “doveva attraversare la Samaria”, come se ci fosse un’unica strada che va da Gerusalemme alla Galilea. In realtà la strada migliore è più comune è quella della valle del Giordano, quella della Samaria essendo in montagna è più tortuosa, anche più pericolosa, visto che, come sottolinea il vangelo, giudei e samaritani sono nemici. Il dovere di Gesù non è dunque geografico ma teologico, è la necessità di Dio di incontrare l’uomo nella sua miseria, nella sua realtà più difficoltosa. C’è dunque una doppia ricerca in questo racconto, quella della donna, che cerca affetto passando da un marito all’altro e quella, che la precede, di Dio. Dio cerca “tali adoratori”, dice Gesù poco più avanti. La ricerca di Dio suscita la ricerca dell’uomo. Il vangelo propone un percorso molto interessante, che serve a vincere le incomprensioni e le resistenze dell’uomo per fare poi due rivelazioni: sull’adorare Dio e sul vero cibo: sia la donna che i discepoli non sanno uscire dal passato, interpretano le parole di Gesù alla luce dei padri, dei patriarchi, mentre Gesù invita a guardare al presente: “Sono io che ti parlo” dice alla donna, “Mio cibo è fare la volontà del Padre” risponde ai discepoli.

Procediamo con ordine però, l’incontro tra Gesù e la samaritana inizia con la richiesta di Gesù: “Dammi da bere”, cioè con la manifestazione del bisogno di Gesù. È lui che ha bisogno della donna, è lui il povero, è lui che ha il coraggio di mostrare la sua indigenza. Anche la donna, naturalmente, ha bisogno di acqua, ed è proprio questa povertà condivisa che diventa la base dell’incontro in verità. E ciò che disseta appare proprio l’incontro: in effetti, secondo il racconto, la donna non attingerà dal pozzo, anzi addirittura abbandona l’anfora, e Gesù non berrà l’acqua, visto che nessuno ha attinto. Il bisogno di entrambi è saziato dalla relazione. Una relazione che richiede il riconoscimento dell’altro, Gesù è chiamato prima giudeo, poi signore, profeta e, infine Messia, contemporaneamente noi stessi, anche gli aspetti più difficili, problematici. È questo l’unico modo perché l’incontro avvenga in verità. Davanti a Gesù è possibile perché lui chiede il coraggio di scendere nella profondità di se stessi, ma non giudica ciò che emerge. Davanti a Gesù la donna può riconoscersi a se stessa, può accogliere le proprie difficoltà e i propri bisogni. Riconosce la su sete più vera e scopre cosa può soddisfarla.

Quando la donna si accorge che il futuro che spera è già iniziato (sono io che ti parlo!) lascia lì la sua brocca e va ad annunciarlo a tutti. E così lei, un’adultera, diventa l’apostola. È importante sottolineare che non è l’integrità morale ad abilitarci a parlare di Gesù, ma l’aver scoperto che cosa è essenziale per la nostra vita, l’aver fatto un’esperienza d’amore: questo basta per poter annunciare. Il resto lo farà Gesù, infatti gli abitanti della città escono e vanno da lui, ed è per la sua parola che credono, per l’esperienza fatta con lui. La donna permette l’incontro con Gesù, ma la fede nasce proprio da questo incontro. Questo è il simbolo della missione della comunità, che non ruba spazio e non impone, ma invita, suggerisce e poi si fa da parte.

Anche nel dialogo con i discepoli c’è un percorso analogo: ciò che nutre pienamente, il cibo vero di Gesù è la relazione con il Padre, ma i discepoli non capiscono e si chiedono chi gli ha portato un panino. L’incomprensione dei discepoli mostra la loro resistenza al cambiamento: non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, diciamo noi, e i discepoli fraintendono proprio perché accettare che la vita piena viene dal compiere la volontà di Dio, e quindi convertire i propri pensieri e le proprie azioni non è facile.

Infine vorrei tornare sul tema dell’adorare Dio in Spirito e verità. L’adorazione è l’atteggiamento di chi vive riconoscendo in tutto il primato di Dio ed è autentica se fatta in Spirito e verità. Lo Spirito è forza divina che solleva l’uomo dalla sua impotenza, è amore donato e accolto che colloca nella verità, che nel vangelo di Giovanni è il disegno salvifico di Dio, ma che passa anche attraverso la verità su noi stessi. È l’esperienza che la donna fa nell’incontro con Gesù. È lui, la sua umanità, la sua parola, il suo dono che ora celebriamo che permette di sperimentare amore e verità, che permette di adorare Dio.

Commento di don Domenico Malmusi

Lectio: Domenica, 30 Marzo, 2014

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Un cieco incontra la luce
Gli occhi si aprono convivendo con Gesù
Giovanni 9,1-41

1. Orazione iniziale

Signore Gesù, invia il tuo Spirito, perché ci aiuti a leggere la Scrittura con lo stesso sguardo, con il quale l’hai letta Tu per i discepoli sulla strada di Emmaus. Con la luce della Parola, scritta nella Bibbia, Tu li aiutasti a scoprire la presenza di Dio negli avvenimenti sconvolgenti della tua condanna e della tua morte. Così, la croce che sembrava essere la fine di ogni speranza, è apparsa loro come sorgente di vita e di risurrezione.
Crea in noi il silenzio per ascoltare la tua voce nella creazione e nella Scrittura, negli avvenimenti e nelle persone, soprattutto nei poveri e sofferenti. La tua Parola ci orienti, affinché anche noi, come i due discepoli di Emmaus, possiamo sperimentare la forza della tua risurrezione e testimoniare agli altri che Tu sei vivo in mezzo a noi come fonte di fraternità, di giustizia e di pace. Questo noi chiediamo a Te, Gesù, figlio di Maria, che ci hai rivelato il Padre e inviato lo Spirito. Amen.

2. Lettura

a) Chiave di lettura:

Il testo del Vangelo di questa quarta domenica di quaresima ci invita a meditare la storia della guarigione di un cieco nato. E’ un testo ridotto, ma molto vivo. Abbiamo qui un esempio concreto di come il Quarto Vangelo rivela il senso profondo nascosto nei fatti della vita di Gesù. La storia della guarigione del cieco ci aiuta ad aprire gli occhi sull’immagine di Gesù che ognuno di noi porta in sé. Molte volte, nella nostra testa, c’è un Gesù che sembra un re glorioso, distante dalla vita del popolo! Nei Vangeli, Gesù appare come un Servo dei poveri, amico dei peccatori. L’immagine del Messia-Re, che avevano in mente i farisei ci impediva di riconoscere in Gesù il Messia-Servo. Durante la lettura, cerchiamo di prestare attenzione a due cose: (i) nel modo esperto e libero con cui il cieco reagisce davanti alle provocazioni delle autorità, e (ii) nel modo in cui lui stesso, il cieco, apre gli occhi rispetto a Gesù.

b) Una divisione del testo per aiutarne la lettura:

Giovanni 9,1-5: La cecità dinanzi al male che esiste nel mondo
Giovanni 9,6-7: Il segnale dell’ “Inviato di Dio” che provocherà diverse reazioni
Giovanni 9,8-13: La reazione dei vicini
Giovanni 9,14-17: La reazione dei farisei
Giovanni 9,18-23: La reazione dei genitori
Giovanni 9,24-34: La sentenza finale dei farisei
Giovanni 9,35-38: L’atteggiamento finale del cieco nato
Giovanni 9,39-41: Una riflessione conclusiva

c) Il testo:

1Passando vide un uomo cieco dalla nascita 2e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». 3Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. 4Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. 5Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo».
6Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco 7e gli disse: «Và a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)». Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
8Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: «Non è egli quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». 9Alcuni dicevano: «E’ lui»; altri dicevano: «No, ma gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». 10Allora gli chiesero: «Come dunque ti furono aperti gli occhi?». 11Egli rispose: «Quell’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: Và a Sìloe e lavati! Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista». 12Gli dissero: «Dov’è questo tale?». Rispose: «Non lo so». 13Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco:
14era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. 15Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo». 16Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri dicevano: «Come può un peccatore compiere tali prodigi?». E c’era dissenso tra di loro. 17Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «E’ un profeta!».
18Ma i Giudei non vollero credere di lui che era stato cieco e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. 19E li interrogarono: «E’ questo il vostro figlio, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede?». 20I genitori risposero: «Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco; 21come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso». 22Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. 23Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età, chiedetelo a lui!».
24Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Dà gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». 25Quegli rispose: «Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo». 26Allora gli dissero di nuovo: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?».27Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». 28Allora lo insultarono e gli dissero: «Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè!29Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». 30Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. 31Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. 32Da che mondo è mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. 33Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». 34Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?». E lo cacciarono fuori.
35Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: «Tu credi nel Figlio dell’uomo?». 36Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?».37Gli disse Gesù: «Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui». 38Ed egli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi.
39Gesù allora disse: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi». 40Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo forse ciechi anche noi?». 41Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane».

3. Momento di silenzio orante

perché la Parola di Dio possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

4. Alcune domande

per aiutarci nella meditazione e nella orazione.

a) Quale è la parte di questo testo che mi ha maggiormente colpito? Perché?
b) Dice il proverbio popolare: “Non c’è peggior cieco di colui che non vuol vedere!” Come appare questo nella conversazione tra il cieco ed i farisei?
c) Quali sono i titoli che Gesù riceve nel testo? Da chi li riceve? Cosa significano?
d) Quale è il titolo che più mi attira? Perché? Ossia, quale è l’immagine di Gesù che ho in testa e che porto nel cuore? Da dove viene questa immagine?
e) Come pulire gli occhi per arrivare al vero Gesù dei Vangeli?

5. Per coloro che desiderano approfondire maggiormente il testo

a) Contesto in cui fu scritto il Vangelo di Giovanni:

Meditando la storia della guarigione del cieco, è bene ricordare il contesto delle comunità cristiane in Asia Minore verso la fine del primo secolo, per le quali è stato scritto il Vangelo di Giovanni e che si identificavano con il cieco e con la sua guarigione. Loro stesse, a causa di una visione legalista della Legge di Dio, erano cieche fin dalla nascita. Ma, come avvenne per il cieco, anche loro riuscirono a vedere la presenza di Dio nella persona di Gesù di Nazaret e si convertirono. E’ stato un processo doloroso! Nella descrizione delle tappe e dei conflitti della guarigione del cieco, l’autore del Quarto Vangelo evoca il percorso spirituale delle comunità, dalla oscurità della cecità fino alla piena luce della fede illuminata da Gesù.

b) Commento del testo:

Giovanni 9,1-5: La cecità davanti al male che esiste nel mondo
Vedendo il cieco i discepoli chiedono: “Rabbì, chi ha peccato lui o i suoi genitori perché egli nascesse cieco?” In quella epoca, un difetto fisico o una malattia era considerata un castigo di Dio. Associare i difetti fisici al peccato era un modo con cui i sacerdoti dell’Antica Alleanza mantenevano il loro potere sulla coscienza del popolo. Gesù aiuta i discepoli a correggere le loro idee: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio!” Opera di Dio è lo stesso che Segnale di Dio. Quindi, ciò che in quella epoca era segnale di assenza di Dio, sarà segnale della sua presenza luminosa in mezzo a noi. Gesù dice: “Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può operare. Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo.” Il Giorno dei segnali comincia a manifestarsi quando Gesù, “il terzo giorno” (Gv 2,1), realizza il “primo segnale” a Cana (Gv 2,11). Ma il Giorno sta per terminare. La notte sta per giungere, poiché siamo già al “settimo giorno”, il sabato, e la guarigione del cieco è già il sesto segnale (Gv 9,14). La Notte è la morte di Gesù. Il settimo segnale sarà la vittoria sulla morte nella risurrezione di Lazzaro (Gv 11). Nel vangelo di Giovanni ci sono solo sette segnali, miracoli, che annunciano il grande segnale che è la Morte e la Risurrezione di Gesù.

Giovanni 9,6-7. Il segnale di “Inviato di Gesù” che produce diverse reazioni
Gesù sputa per terra, fa del fango con la saliva, spalma il fango sugli occhi del cieco e gli chiede di lavarsi nella piscina di Siloè. L’uomo va e ritorna guarito. E’ questo il segnale! Giovanni commenta dicendo che Siloè significa inviato. Gesù è l’Inviato del Padre che realizza le opere di Dio, i segnali del Padri. Il segnale di questo ‘invio’ è che il cieco comincia a vedere.

Giovanni 9,8-13: La prima reazione: quella dei vicini
Il cieco è molto conosciuto. I vicini rimangono dubbiosi: “Sarà proprio lui? E si chiedono: “Com’è che si aprirono i suoi occhi?” Colui che prima era cieco, testimonia: “Quell’Uomo che si chiama Gesù mi ha aperto gli occhi”. Il fondamento della fede in Gesù è accettare che lui è un essere umano come noi. I vicini si chiedono: “Dov’è?” – “Non lo so!” Loro non rimangono soddisfatti con la risposta del cieco e, per chiarire il tutto, portano l’uomo dinanzi ai farisei, le autorità religiose.

Giovanni 9,14-17: La seconda reazione: quella dei farisei
Quel giorno era un sabato ed il giorno del sabato era proibito curare. Interrogato dai farisei, l’uomo racconta di nuovo tutto. Alcuni farisei, ciechi nella loro osservanza della legge, commentano: “Questo uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato!” E non riuscivano ad ammettere che Gesù potesse essere un segnale di Dio, perché guariscono il cieco un sabato. Ma altri farisei, interpellati dal segnale, rispondono: “Come può un peccatore compiere tali prodigi?” Erano divisi tra loro! E chiesero al cieco: “Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?” E lui dà la sua testimonianza: “E’ unProfeta!”

Giovanni 9,18-23: La terza reazione: quella dei genitori
I farisei, ora chiamati giudei, non credevano che fosse stato cieco. Pensavano che si trattasse di un inganno. Per questo mandarono a chiamare i genitori e chiesero loro: “E’ questo il vostro figlio che voi dite di esser nato cieco? Come mai ora ci vede?” Con molta cautela i genitori risposero: “Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco; come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi. Chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui stesso!” La cecità dei farisei dinanzi all’evidenza della guarigione produce timore tra la gente. E colui che professava di avere fede in Gesù Messia era espulso dalla sinagoga. La conversazione con i genitori del cieco rivela la verità, ma le autorità religiose si negano ad accettarla. La loro cecità è maggiore che l’evidenza dei fatti. Loro, che tanto insistevano nell’osservanza della legge, ora non vogliono accettare la legge che dichiara valida la testimonianza di due persone (Gv 8,17).

Giovanni 9,24-34: La sentenza finale dei farisei rispetto a Gesù
Chiamano di nuovo il cieco e dicono: “Dà gloria a Dio. Noi sappiamo che questo uomo è un peccatore.” In questo caso: “dare gloria a Dio” significava: “Chiedi perdono per la menzogna che hai appena detto!” Il cieco aveva detto: “E’ un profeta!” Secondo i farisei avrebbe dovuto dire: “E’ un peccatore!” Ma il cieco è intelligente. E risponde: “Se sia un peccatore non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo!” Contro questo fatto non ci sono argomenti! Di nuovo i farisei chiedono: “Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?” Il cieco risponde con ironia: “Ve l’ho già detto. Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?” Allora lo insultarono e gli dissero: “Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia”. Con fine ironia, di nuovo il cieco risponde: “Proprio questo è strano! Che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”. Dinanzi alla cecità dei farisei, cresce nel cieco la luce della fede. Lui non accetta il raziocinio dei farisei e confessa che Gesù viene dal Padre. Questa professione di fede gli causa l’espulsione dalla sinagoga. Lo stesso succedeva nelle comunità cristiane della fine del primo secolo. Colui che professava la fede in Gesù doveva rompere qualsiasi legame familiare e comunitario. Così succede anche oggi: colui o colei che decide di essere fedele a Gesù corre il pericolo di essere escluso.

Giovanni 9,35-38: L’atteggiamento di fede del cieco dinanzi a Gesù
Gesù non abbandona colui per cui è perseguitato. Quando viene messo al corrente dell’espulsione, ed incontrandosi con l’uomo, lo aiuta a dare un altro passo, invitandolo ad assumere la sua fede e gli chiede: “Tu credi nel Figlio dell’Uomo?” E lui gli risponde: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?” Gli disse Gesù: “Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui”. Il cieco esclama: “Credo, Signore!” E gli si prostra dinanzi. L’atteggiamento di fede del cieco davanti a Gesù è di assoluta fiducia e di totale accettazione. Accetta tutto da Gesù. Ed è questa la fede che sostentava le comunità cristiane dell’Asia verso la fine del primo secolo, e che ci sostiene fino ad oggi.

Giovanni 9,39-41: Una riflessione finale
Il cieco che non vedeva, finisce vedendo meglio dei farisei. Le comunità dell’Asia Minore che prima erano cieche, scoprono la luce. I farisei che pensavano di vedere correttamente, sono più ciechi del cieco nato. Intrappolati nella vecchia osservanza, mentono quando dicono di vedere. Non c’è peggior cieco di colui che non vuole vedere!

c) Allargando la visione:

I Nomi ed i Titoli che Gesù riceve

Lungo la narrazione della guarigione del cieco, l’evangelista registra vari titoli, aggettivi e nomi, che Gesù riceve dalle più svariate persone: dai discepoli, dall’evangelista stesso, dal cieco, dai farisei, da lui stesso. Questo modo di descrivere i fatti della vita di Gesù fa parte della catechesi dell’epoca. Era una forma di aiutare le persone a chiarire le proprie idee rispetto a Gesù ed a definirsi dinanzi a lui. Ecco alcuni di questi nomi, aggettivi e titoli. L’elenco indica la crescita del cieco nella fede e come si chiarisce la sua visione.
* Rabbì (maestro) (Gv. 9,1): i discepoli
* Luce del mondo (Gv 9,5): Gesù
* Inviato (Gv 9,7): l’Evangelista
* Uomo (Gv 9,11): il cieco guarito
* Gesù: (Gv 9,11): il cieco guarito
* Non viene da Dio (Gv 9,16): alcuni farisei
* Profeta (Gv 9,17): il cieco guarito
* Cristo (Gv 9,22): il popolo
* Peccatore (Gv 9,24): alcuni farisei
* Non sappiamo di dove sia (Gv 9,31): il cieco guarito
* Religioso (Gv 9,31): il cieco guarito
* Fa la volontà di Dio (Gv 9,31): il cieco guarito
* Figlio dell’uomo (Gv 9,35): Gesù
* Signore (Gv 9,36): il cieco guarito
* Credo, Signore! (Gv 9,38): il cieco guarito

– Il Nome: “Io SONO”

Per rivelare il significato profondo della guarigione del cieco, il Quarto Vangelo ricorda la frase di Gesù: “Io sono la luce del mondo” (Gv 9,5). In diversi altri luoghi, in risposta alle domande che le persone pongono fino ad oggi rispetto a Gesù: “Chi sei tu?” (Gv 8,25) o “Chi pretendi di essere?” (Gv 8,53), il vangelo di Giovanni ripete questa stessa affermazione “IO SONO”:
* Io sono il pane di vita (Gv 6,34-48)
* Io sono il pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,51)
* Io sono la luce del mondo (Gv 8,12; 9,5)
* Io sono la porta (Gv 10, 7.9)
* Io sono il buon pastore (Gv 10,11,25)
* Io sono la risurrezione e la vita (Gv 11,25)
* Io sono il cammino, la verità e la vita (Gv 14,6)
* Io sono la vite (Gv 15,1)
* Io sono re (Gv 18,37)
* Io sono (Gv 8,24.27.58)
Questa auto-rivelazione di Gesù raggiunge il suo culmine nella conversazione con i giudei, in cui Gesù afferma: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono” (Gv 8,27). Il nome Io sono è lo stesso che Yavé, nome che Dio assunse nell’esodo, espressione della sua presenza liberatrice tra Gesù ed il Padre (Ex 3,15). La ripetuta affermazione IO SONO rivela la profonda identità tra Gesù ed il Padre. Il volto di Dio rifulge in Gesù di Nazaret: “Chi vede me, vede il Padre!” (Gv 14,9)

6. Preghiera: Salmo 117 (116)

Un riassunto della bibbia in una preghiera

Alleluia.
Lodate il Signore, popoli tutti,
voi tutte, nazioni, dategli gloria;
perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura in eterno.

7. Orazione Finale

Signore Gesù, ti ringraziamo per la tua Parola che ci ha fatto vedere meglio la volontà del Padre. Fa che il tuo Spirito illumini le nostre azioni e ci comunichi la forza per eseguire quello che la Tua Parola ci ha fatto vedere. Fa che noi, come Maria, tua Madre, possiamo non solo ascoltare ma anche praticare la Parola. Tu che vivi e regni con il Padre nell’unità dello Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen.

http://ocarm.org/it/content/lectio/lectio-divina-5-domenica-quaresima

21 gennaio 2014

Vangelo E Commento Domenica 19 Gennaio

 

Nicolas Poussin, San Giovanni Battista battezza le folle (1635 - 1637), olio su tela

Nicolas Poussin, San Giovanni Battista battezza le folle (1635 – 1637), olio su tela

Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».
Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

Parola del Signore

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II Tempo ordinario

Agnello e Figlio amato

Siamo nel primo capitolo del vangelo secondo Giovanni che inizia, come ricorderete, con il bellissimo inno poetico: “In principio era il Verbo…”. Subito dopo si parla della predicazione di Giovanni e poi, improvvisamente, appare Gesù. Giovanni racconta di averlo battezzato e aver visto lo Spirito scendere e, in poche ma forti pennellate traccia il ritratto di Gesù: Gesù è l’Agnello, il preesistente, il veicolo dello Spirito.

Un tema importante che appare nel racconto ci è presentato dalla ripetizione di: “Io non lo conoscevo”. Ci appare strano il fatto che Giovanni ammetta la propria ignoranza riguardo a Gesù, sappiamo che si conoscevano. Eppure pensare di non conoscere Gesù una volta per tutte è un aspetto determinante nel cammino della fede. C’è una non-conoscenza del Signore che è vitale per una conoscenza che sia autentica. Pretendere che l’immagine che abbiamo del Signore sia quella certa e definitiva è dannoso perché conduce al fondamentalismo. Occorre “spezzare i simboli”, avere il coraggio di staccarsi da quelle che sono proiezioni dei nostri desideri e aspettative. La conoscenza del Signore va sempre rinnovata, deve essere sempre purificata per non correre il rischio di divenire una stanca abitudine. Il vangelo ci mostra un Dio vivo, vitale, sempre un po’ più avanti di tutte le immagini che ci facciamo di lui. Il comandamento che vieta di fare immagini di Dio non è la proibizione della pittura o della scultura, ma il comando a non fissare dentro di noi una rappresentazione di Dio che lo riduce ad una maschera quindi l’invito a rimanere aperti, in ascolto, pronti a riconoscere la novità che viene dall’alto.

Non è facile mantenere questa apertura, tutti fanno fatica a staccarsi dalle proprie abitudini, anche ciascuno di noi, sia preso singolarmente che come comunità, è prigioniero di questa fatica: e io credo che la difficoltà di rinnovare il quotidiano della nostra vita spesso sia legata alla tentazione di rendere vecchia, stantia, ingessata, atrofizzata la nostra conoscenza del Signore. Allo stesso modo in cui possiamo ritrovarci ad adorare un idolo invece che il Signore vivente possiamo ritrovarci a rendere perenni i modi e gli stili della nostra vita solo perché calcificati dall’abitudine. Pensando alla parrocchia gli stili a volte calcificati sono quelli dell’evangelizzazione, della catechesi, della liturgia, della carità.

In Evangelii Gaudium il Papa invita tutti ad un forte rinnovamento: “Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione”. 

Si esce dall’abitudinario, si possono cambiare stili e linguaggi se si sa ascoltare, ascoltare il mondo, gli uomini, la nostra interiorità ma, soprattutto la Parola di Dio. Giovanni dice: “…colui che mi ha inviato … mi disse…”, e questo non indica una rivelazione miracolistica ma l’ascolto della Parola di Dio. È questo ascolto attento che ha reso lo sguardo di Giovanni talmente vigile da vedere lo Spirito posarsi su Gesù. Il Battista ‘non conosceva’ Gesù nella sua identità messianica e di rivelatore del Padre, ma l’ascolto della Parola ha reso possibile la visione, cioè l’esperienza dello Spirito.

Ciascuno di noi è chiamato al compito di vedere lo Spirito, cioè di discernere la sua presenza attiva nella storia e nelle vite degli uomini. E lo Spirito viene reso visibile dai suoi frutti, cioè da ciò che opera negli uomini e nelle loro relazioni. Dice Paolo ai Galati che frutti dello Spirito sono amore, pazienza, benevolenza, mitezza…

Conoscere l’identità profonda di Gesù permette la testimonianza, è questo l’itinerario spirituale della conoscenza di Dio: ascolto, discernimento, testimonianza. Abbiamo riflettuto sull’ascolto e il discernimento, cioè la capacità di vedere lo Spirito, resta la testimonianza. E la testimonianza significa essere coinvolti in ciò che si è visto, seguire Gesù che è l’Agnello, dunque mite, che è figlio amato e per questo obbediente. Obbedire, essere miti, sentirsi figli amati sono dunque le caratteristiche che rendono il discepolo come il suo maestro, che scardinano l’immagine di un mondo immutabile, indurito dall’incapacità di cambiare e lo aprono alla perenne novità del vangelo.

Commento di don Domenico Malmusi

6 gennaio 2014

Vangelo E Commento Domenica 5 Gennaio

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Andrea Mantegna - dorazione Dei Pastori

Andrea Mantegna – dorazione Dei Pastori

Giotto - Natività Di Gesù - Cappella Degli Scrovegni, Padova

Giotto – Natività Di Gesù – Cappella Degli Scrovegni, Padova

Dal Vangelo secondo Giovanni 1,1-18.
In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta.
Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.
A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome,
i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli rende testimonianza e grida: «Ecco l’uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia.
Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.

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II dopo Natale

Spazio e tempo

Il vangelo, che è lo stesso del giorno di Natale, è un testo fondamentale per tutta la riflessione teologica dell’incarnazione e della relazione trinitaria. Però, come abbiamo notato, il linguaggio che viene usato non è quello di un trattato filosofico-teologico ma quello della poesia. Anche le altre due letture che abbiamo ascoltato utilizzano dei linguaggi che sono più evocativi che narrativi: la prima lettura sembra un’omelia, un linguaggio liturgico, mentre la seconda lettura è chiaramente una preghiera.

Parlare del mistero di Dio non è semplice, spesso il linguaggio razionale e analitico è inadeguato: la poesia, la liturgia e la preghiera che sono linguaggi evocativi, espressioni che toccano direttamente le corde della nostre emozioni permettono non tanto di capire in modo razionale ma di accostarsi ad una comprensione più intima, relazionale. Il mistero di Dio è un mistero d’amore e quindi si comunica e si comprende con il linguaggio dei sentimenti, delle emozioni, una esperienza di comunicazione che è profondamente umana.

Dio sceglie di manifestarsi cioè di manifestare la sua gloria nella carne umana, nel corpo e nella vita dell’uomo Gesù. Dire carne, o corpo, significa dire tutto l’umano, con la sua bellezza e la sua fragilità. In questo modo la luce di Dio, che di per sé sarebbe una luce accecante, diventa luce visibile agli occhi umani proprio attraverso quel corpo che la manifesta mentre la offusca.

Qui c’è sicuramente uno degli aspetti più caratteristici, ma anche più misteriosi della nostra fede: la carne umana, così quotidiana, così misera è la condizione che ci permette di avere accesso al mistero di Dio. Dio nessuno l’ha mai visto, solo l’uomo Gesù, il Verbo fattosi carne, lo rivela pienamente. Dio non si impone all’uomo, non lo abbaglia con la sua luce e non lo schiaccia con il peso della sua gloria ma apre con lui un dialogo, indica una via, diviene segno. E proprio perché Dio sceglie la via dell’umanità il corpo e la parola umani sono il luogo in cui rispondere alla comunicazione di Dio.

Tutto questo però richiede un tempo. Accogliere la rivelazione di Dio è l’inizio di un processo che richiede molto tempo ma che è la vera possibilità di trasformare le persone e le cose. Venendo nel mondo Dio non ha deciso di occupare uno spazio di potere, non ha conquistato una nazione, non ha elaborato una forma di governo obbligando gli uomini ad obbedirgli, ma ha semplicemente abitato il tempo iniziando un processo di trasformazione in un piccolo gruppo di uomini. È questo principio che dovremmo recuperare accettando di lavorare a lunga scadenza.

In Evangelii gaudium il papa scrive: uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventare matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione… Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli una catena in costante crescita, senza retromarce….

Il Papa scrive queste cose riferendosi all’ambito socio-politico, qualcuno potrebbe dire che la Chiesa non è un organismo politico ma una struttura che ha come compito prioritario quello di evangelizzare. Certamente è questo lo scopo della Chiesa ma raggiungere questa meta è possibile solo nella logica dell’incarnazione cioè inserendosi nella società degli uomini con un interesse vero per la vita della polis e, soprattutto, senza invadere lo spazio politico di governo e di potere ma iniziando un processo di dialogo e comunicazione che nel procedere del tempo è capace di trasformare il cuore dell’uomo.

Commento di don Domenico Malmusi

26 dicembre 2013

Filed under: Vangelo — Insieme @ 09:57
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Caravaggio - Natività Con I Santi Lorenzo E Francesco d'Assisi

Caravaggio – Natività Con I Santi Lorenzo E Francesco d’Assisi

Dal Vangelo secondo Giovanni 1,1-18.
In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta.
Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.
A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome,
i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli rende testimonianza e grida: «Ecco l’uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia.
Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.

 

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Natale giorno

Il Verbo si fece carne

Il testo evangelico ascoltato è indubbiamente difficile. Il termine Verbo traduce la parola greca Logos, un termine che ha una ricchezza di significati difficilmente trasferibili in un termine italiano. La traduzione più diretta potrebbe essere parola o discorso, ma in realtà si tratta di un concetto filosofico trasportato nella teologia e nella fede, e che indicava una sorta di legge universale, un principio vivente e attivo che attraversa ogni cosa. La cultura Biblica non faticherà ad associare questo termine con la Parola di Dio una realtà che poi viene personificata.

La cosa assolutamente stupefacente che abbiamo sentito nell’inno di Giovanni è che il Logos non si è fatto parole ma carne, vita di un uomo, un uomo molto preciso, quel Gesù vissuto in un tempo e in luogo molto preciso. Nel nostro modo di pensare una legge universale viene tradotta in tante leggi particolari, il Verbo (logos) in tanti verbi, cioè in tante azioni, in precetti, osservanze. Nella visione di Dio invece il Verbo diventa uomo, quell’uomo fatto di sentimenti, azioni, parole, gesti immagini, cibo, odori, conoscenze… Gesù, questa Parola rivelatrice di Dio, non è un trattato su Dio ma esistenza totale di Dio fatto carne. La salvezza allora passa attraverso la carne, cioè l’umanità, la fragilità e non attraverso una parola che spiega l’incarnazione.

Un brano famoso della lettera ai Galati dice così: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli”. È nato da una donna, cioè con un codice genetico preciso, pienamente umano, come tutti. È nato sotto la legge, cioè in un contesto culturale specifico, con una lingua, delle tradizioni, delle possibilità dategli dal tempo e dal luogo in cui è nato. Gesù è nato nella storia con le possibilità e i limiti di quella famiglia, quel luogo, quel tempo, perché ogni uomo di ogni famiglia, di ogni luogo e ogni tempo possa comprendere il suo dono di salvezza. Qui c’è il segreto dell’incarnazione: non si tratta di precetti dottrinali ma di vita, vita vera, concreta, umana.

Una parola che spiega un concetto lo definisce, cioè delimita, pone un confine preciso. Diventa cioè dottrina, fatta di leggi e di precetti. Mentre una Parola che ha un tono diverso, poetico e simbolico, apre ad una dimensione più ampia, evoca cose altre, supera ogni idea di precetto. Il Verbo di Dio, la Parola per eccellenza, il Logos, si è fatto carne, si è fatto corpo che è simbolo dell’uomo intero, della sua umanità, della fragilità. Ma è il corpo che mi permette di entrare in relazione con l’altro, è nel corpo che l’altro mi tocca e lascia un segno, che incide nella mia vita.

L’incarnazione non è una facilitazione nel riconoscere la presenza di Dio, è faticoso riconoscere la rivelazione di Dio nel corpo, nei gesti, nelle parola umane. Ma questa è la fatica della fede. Pensare alla fede come concetti dottrinali, come precetti da osservare e obblighi da assolvere è sicuramente molto più facile, fa sentire a posto. Il linguaggio simbolico essendo più aperto e meno definito richiede un’opera di interpretazione e di coinvolgimento della coscienza molto più profonda. La fede in un Dio che si fa carne è una fede ‘fuori controllo’, aperta all’imprevedibile, alla novità. È una fede che richiede un coinvolgimento totale, una responsabilità piena sul mio cammino e sulle mie scelte.

La carne di Gesù è la via che guida ciascuno di noi alla comunione con il Padre. E siccome la sua carne è quella dell’uomo, di ogni uomo, solo l’accoglienza nella fede della propria carne, cioè della propria condizione umana limitata, precaria, fragile, ci permette di costruire rapporti di fraternità e comunione che raccontino la luce e la vita di Dio agli uomini. Il racconto di Dio realizzato dal Verbo fatto uomo può e deve essere continuato da parte di ciascuno dei figli di Dio, da ciascuno di noi, se sapremo accogliere la debolezza di Dio che è divenuta luce che illumina la vita degli uomini.

Commento di don Domenico Malmusi

26 Maggio 2013

Vangelo E Comento Domenica 26 Maggio

Filed under: Prima Pagina,Vangelo — Insieme @ 08:56
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Pablo Picasso - Colomba Blu

Pablo Picasso – Colomba Blu

 

Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:
«Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.
Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future.
Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

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Trinità (VIII Tempo per annum)

La danza della comunione

Il vangelo appena ascoltato, che come tutti i testi di Giovanni è piuttosto difficile, inizia con un riferimento a due tempi molto precisi: il tempo di Gesù e il tempo della chiesa. Il tempo di Gesù è chiaramente caratterizzato dalla sua presenza, ma anche dalla brevità – il ministero pubblico è durato circa tre anni – che ha reso difficile ai discepoli la comprensione piena del suo messaggio. Le cose che Gesù insegna sono ‘pesanti’ che nella cultura biblica ha un’accezione molto positiva ma, nello stesso tempo evoca anche la difficoltà che si può trovare nel comprendere. Dio è ‘pesante’ cioè glorioso, significativo, importante, ma anche il totalmente altro, il diverso da noi, l’incomprensibile. Nel breve tempo della relazione che hanno avuto con Gesù i discepoli non possono arrivare a portare tutto il ‘peso’ della rivelazione. In questo il tempo della chiesa è privilegiato: è un tempo lungo in cui la presenza dello Spirito assicura una guida ed un accompagnamento dentro tutta la verità. Proprio grazie alla lunghezza del tempo e per la costante azione dello Spirito si può giungere ad una comprensione più piena.

Il compito del cristiano animato dallo Spirito è dunque quello di camminare dentro la verità, cioè di cogliere il centro, la radice della propria fede e del proprio vivere. Spesso la vita manca di profondità di consapevolezza. L’esperienza della verità è un cammino dentro, è un attraversamento di se stessi per comprendere pienamente ciò che si sente nel profondo del proprio essere. È un cammino faticoso quello verso se stessi perché la nostra interiorità è fatta anche di aspetti che preferiremmo non avere o almeno che non vorremmo vedere. È necessario che questi aspetti vengano scoperti gradualmente e, soprattutto, in un contesto che renda possibile portarne il peso senza rimanere schiacciati. Gesù dice ai discepoli che occorre tempo per diventare capaci di portare il peso delle cose, lui capisce la stagione interiore delle persone che ha scelto e non pretende né di raccogliere né di seminare fuori stagione. Lo Spirito, con la sua presenza consolante, entra nell’uomo quando la sua anima è ben disposta, quando è nella stagione favorevole e lo accompagna per tutto il tempo della maturazione.

Questo significa che il percorso verso la verità è graduale, e non finisce, perché la verità è Gesù, il vivente, colui che ci precede, che è una meta che è sempre davanti a noi e non può diventare un possesso da custodire. Ma Gesù è anche assente, per questo occorre il dono dello Spirito che annuncia (comunica) all’uomo il mistero di Dio. Accogliendo questa comunicazione e facendosi dimora della sua presenza l’uomo glorifica Dio. Essere dimora è una bellissima definizione dell’amore: amare significa far dimorare l’altro nel proprio cuore, e questo è possibile solo se c’è un confronto una comunicazione reciproca. L’altro non è l’immagine che io ho di lui, ma ciò che lui rivela di sé, per questo ospitarlo nel cuore significa avere una profonda capacità di comunicazione. Le letture di oggi sottolineano in particolare l’aspetto della comunicazione della vita divina agli uomini: il Dio che si comunica all’umanità nello Spirito e nel Figlio Gesù Cristo è il Dio che è comunione e comunicazione in sé stesso.

Ed è in questa comunicazione, che non è solo fra l’uomo e Dio ma anche fra l’uomo e il suo fratello, si può costruire il futuro e realizzare i progetti. È bellissima a questo proposito l’immagine usata nella prima lettura: Dio non crea il mondo da solo, accanto a lui, come architetto, c’è la Sapienza (che a volte indica il Figlio e a volte lo Spirito). La Sapienza parla e dice: “Io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre…”. La creazione è vista come una danza, un momento di grande gioia, di delizia. La comunicazione creativa, il costruire futuro è esperienza di gioia, di bellezza.

Infine lo Spirito rivelerà le cose future, le cose che devono accadere. Non dobbiamo pensare però ad una cronaca del futuro, ma di una lettura del presente alla luce del suo compimento. La profezia è un’operazione che è legata alla memoria, una memoria ‘informata’ dallo Spirito che diventa ricordo vitale, che è legata alla gratitudine e che permette di inventarsi un futuro. Un futuro di comunione sul modello trinitario che è fatto di non assorbimento e la non cancellazione dell’altro. Ogni persona della Trinità è ben distinta, non è fusa o confusa con le altre e non cancella le altre. Questo è il modello della vera comunione: una vicinanza che non diventa fusione, un rispetto che accoglie pienamente la presenza. Celebrare la festa della Trinità significa imparare dalla scuola trinitaria a vivere questa comunicazione d’amore che diventa piena comunione e che, come in un gioco o in una danza, ci permette di creare un futuro di vita per tutti.

Commento di don Domenico Malmusi

20 Maggio 2013

Vangelo E Commento Domenica 19 Maggio

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Jean Restout - Pentecoste Francia, 1732

Jean Restout – Pentecoste Francia, 1732

Dal Vangelo secondo Giovanni 14,15-16.23b-26.
Se mi amate, osserverete i miei comandamenti.
Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre,
Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.
Chi non mi ama non osserva le mie parole; la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi.
Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.

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Pentecoste

Lo Spirito che ricorda

Pentecoste è per noi il giorno dello Spirito. Abbiamo sentito la narrazione dell’evento nella prima lettura, questo Spirito che è un rombo di tuono e un fuoco abilita gli apostoli alla missione. Proprio come aveva abilitato alla missione Gesù scendendo su di lui il giorno del battesimo. Ma lo stesso Spirito era anche stato alitato da Gesù sugli apostoli, chiusi in casa per paura, il giorno della risurrezione. E si dice che sulla croce Gesù emise lo Spirito. Ancora lo Spirito ha coperto Maria con la sua ombra rendendola Madre di Gesù ed ha riempito Elisabetta rendendola capace di riconoscere la presenza del Messia. Sempre lo Spirito, all’inizio della storia umana, ha reso Adamo un essere vivente. La presenza dello Spirito, si capisce bene, non è dunque presenza di un giorno, celebrazione di un giorno. È una realtà presente costantemente nella vita di chi accoglie Dio, nella vita della chiesa, del mondo. Proprio questo mondo pieno di violenza, di odio, di ingiustizia, la liturgia, che canta la nostra fede, ce lo mostra come il luogo dello Spirito, un luogo rinnovato dallo Spirito.

Rinnovare significa che lo Spirito presiede alla novità, al desiderio, alla progettazione, alla nascita. Ogni volta che in noi nasce un desiderio, che iniziamo una cosa nuova, che ci buttiamo in un’avventura stiamo, in qualche modo, ascoltando lo Spirito. È vero però che i sogni e i progetti spesso sono attraversati anche dallo scoraggiamento, dall’illusione, dalla sfiducia. Mantenere il coraggio e la forza per realizzare i sogni è una lotta dura in un mondo che tende verso l’entropia, cioè il disordine, la perdita dell’energia che diventa poi smorzamento degli ideali. Il ruolo dello Spirito, che è Paraclito, cioè avvocato difensore, consolatore è allora quello di abilitare alla lotta contro queste tentazioni. La tentazione non è il semplice aver voglia di qualcosa di proibito, ma è la sfiducia, la paura del futuro, il timore di non farcela e, tutto questo, fa sì che cerchiamo rifugio in consolazioni che diventano le varie azioni peccaminose. La vita di fede è sempre una lotta contro la tentazione della non fede e, in questa lotta, lo Spirito ci è accanto, insegna e ricorda tutto ciò che Gesù ci ha detto.

Credo sia molto importante sottolineare che ricordare, che alcuni esegeti traducono con ‘suggerire’ non è una semplice operazione di recupero del passato, che spesso serve solo ad alimentare la nostalgia e quindi il pessimismo, ma è ritornare al fondamento cardine del nostro credo per poterlo attualizzare e, quindi, progredire nel cammino della fede. Ricordare è un’operazione indispensabile per costruire il futuro, non per rimanere ancorati al passato. Se manca la memoria si ripetono gli errori del passato, la storia dovrebbe avercelo insegnato.

Lo scopo dello Spirito è dunque insegnare e ricordare, un’operazione che conduce alla profondità, che costruisce una vita interiore, dimensione fondamentale per la vita cristiana. La vita cristiana è fatta di concretezza, di gesti d’amore, di attenzione all’altro, ma tutto questo rischia di ridursi a pura esteriorità, a culto dell’attivismo, ostentazione della propria generosità se non è radicato profondamente nell’intimo del proprio cuore. Ci sono movimenti umani che fanno parte in modo sostanziale della vita spirituale cristiana: guardare dentro di sé, ascoltare la vita, ascoltare il proprio corpo, dare un nome alle proprie emozioni, anche quelle che riteniamo negative come la rabbia, valutare le proprie azioni, pensare e riflettere, interrogarsi e mettersi in discussione, stare in solitudine e abitare il silenzio, sono esperienze necessarie ad una vita che possa dirsi veramente umana e sono indispensabili per la vita di fede. La fede nasce dall’ascolto della parola di Dio e dall’accoglienza del dono dello Spirito e l’uomo spirituale è colui che accoglie questa parola e la comprende e la medita illuminato e sostenuto dallo Spirito. È al culmine di questa operazione che si diventa capaci di amare Dio e i fratelli. L’amore, l’amore vero fatto di gesti di cura, di affetto, di sostegno, è ciò che garantisce l’autenticità della spiritualità che vivo ma, ripeto, deve essere il vertice di una vita che trova tempo per l’interiorità.

Troppo spesso anche la nostra comunità investe le sue energie migliori nel fare delle cose, organizzare iniziative, spesso belle e anche socialmente utili generando però fedeli che sono sempre più infedeli, cioè incapaci di attribuire una centralità alla vita spirituale e alla preghiera. Recuperare il senso profondo della propria vita significa vivere un concetto più pregnante dell’amore: un amore a Dio come unica opera necessaria e un amore ai fratelli animato di gratuità autentica.

Commento di don Domenico Malmusi

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